venerdì 3 febbraio 2017

Abiti da fare.

            

Non le è mai piaciuto essere guardata dritta negli occhi da sua mamma. Devi fare in questa maniera, le dice lei in certe occasioni usando la sua voce in un modo sempre così mansueto e dolce, mentre le ricorda con grande pazienza qualcuno dei suoi grandi segreti del cucito. La figlia osserva i suoi modi, le sue mani, magari mette bene a fuoco quei tagli ancora da imbastire, che dovranno essere in seguito ripassati a macchina con un punto un po’ particolare, quei pezzi da montare con pazienza, e spera ogni volta che i loro sguardi non si incrocino, cosa che prima o dopo avviene sempre, immancabilmente. Ci trova qualcosa di freddo e di remissivo in quello sguardo, in quei bulbi oculari sempre lacrimosi, con quella strana luce spenta in fondo, di un colore indefinibile, come un lieve accenno di espressione ignota e mai completa.
I cartamodelli stanno tutti divisi in gruppi dentro ad appositi armadietti, e le due donne lavorano nel laboratorio della propria casa generalmente per tutta la mattina, interrompendosi soltanto per preparare e consumare il pranzo utilizzando le altre stanze, e lasciandosi per il pomeriggio generalmente solo qualche piccola rifinitura: un orlo, qualche asola, cose di poco conto insomma. Ma è proprio alla luce del mattino che la mamma assume quello sguardo, magari mentre vengono composte ed assemblate quelle porzioni di vestito che poi faranno parte della collezione di qualche nome importante della moda. Bisogna lavorare bene, dice la mamma: ci vuole un attimo a perdere la fiducia che ci è stata assegnata.
Durante tutto il tempo che la mamma taglia le pezze di tessuto, oppure passa la stoffa sotto ad una macchina, o magari imbastisce gli abiti, la sua attenzione appare interamente focalizzata da ciò che sta creando, da quei dettagli che poco per volta magicamente prendono forma, tanto da avvicinarsi con le mani il più possibile alle lampade, proprio per vedere ancora meglio ciò che sta facendo. Ma è quando appoggia per un attimo il cucito sul piano di lavoro, o quando adatta la stoffa sopra a un manichino, che allora guarda la figlia in maniera diretta e scrutatrice, come per comprendere se qualcosa non sia forse stato preso in considerazione come lei avrebbe voluto. 
Certe volte la figlia si avvicina alla finestra; la scusa è sempre quella di osservare alla luce naturale come le appare il colore di una stoffa, oppure come sia venuta una certa cucitura, ma in realtà allontanarsi da quello sguardo di sua madre è qualcosa di cui ogni tanto sente fatalmente la necessità, ed una volta vicina ai vetri osserva volentieri tutte le persone che passano lungo quella strada, mentre conversano tra loro, o si tengono a braccetto, oppure passeggiano tranquille.
La figlia è ancora giovane, ma si è sempre impegnata, e sa già fare molte delle cose che sua madre le sta poco per volta trasmettendo. Tra non molto forse potrà cavarsela da sola, eseguire in autonomia gli ordini degli abiti che nominalmente vengono ancora passati alla sua mamma, e prendere decisioni già per conto proprio, lasciando che sua madre poco alla volta esca dal laboratorio, almeno dalla zona esecutiva. Ci sono già due o tre lavoranti che vanno ogni giorno lì da loro, forse in seguito ce ne potranno essere anche alcune altre; prima o dopo la figlia diventerà quella che decide e che gestisce tutto quanto, e così potrà lasciare sua madre a riposare, se lo vuole, e ad occuparsi di altre cose nel resto del loro grande appartamento.
Quel suo sguardo allora diverrà sempre meno utile, e lei finalmente potrà tornare a guardarla dritta dentro gli occhi; e forse non ci sarà niente di male se qualche volta ci troverà soltanto la stanchezza di una vita trascorsa in mezzo agli abiti da fare.


Bruno Magnolfi

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