lunedì 28 novembre 2016

Perfetta comprensione.

      

            Il parrucchiere Marcello è gentile, dice Armando alla mamma; anche se la sua gentilezza in tutti questi anni da quando vado in quel suo negozio, a me non è mai rimasta troppo simpatica. Spesso lui regala intorno a sé battute di spirito, normalmente cose abbastanza scontate, a cui tutti i clienti del suo esercizio sembrano ridere quasi forzatamente, proprio per fargli piacere e nient’altro; e poi parla di continuo, non si ferma quasi mai, anche quando io e tutti gli  altri proviamo forte il desiderio di starcene un po’ più tranquilli, mentre come al solito ci ritroviamo purtroppo seduti con le nostre cose da leggere su quei sui scomodi e ordinari divanetti, ad aspettare pazientemente il nostro turno per tagliare i capelli o la barba.
            Vedi mamma, dice lui: a me già non piace il pensiero di quando Marcello inforca le forbici ed inizia a tagliarmi le ciocche; per questo sto per tutto il tempo in tensione: una parte di me, bene o male, se ne andrà a cadere per terra, continuo a riflettere, ed in seguito verrà spazzata via senza mezze misure dalla scopa di quell’aiutante di bottega, quel ragazzetto che ridendo come un ebete affronta qualunque cosa in maniera sbagliata e svogliata, senza metterci impegno. Devo, questo il punto, perché non posso lasciare che i miei capelli crescendo si riversino ancora quasi sopra le spalle, come già qualche volta è accaduto. Ma fosse per me, lo dico sul serio, lascerei che fosse soltanto la natura ad imporre la loro definitiva lunghezza. In ogni caso la giornata da me scelta per andare da Marcello è sempre una giornata oltremodo triste, un passaggio praticamente obbligato, e so perfettamente mentre percorro il tratto di strada che mi porta da lui, che non sarò affatto contento quando rifarò lo stesso percorso al contrario, qualsiasi possa essere il tipo di taglio che viene deciso.
Sto lì, quasi con rassegnazione, mamma, spiega Armando, e aspetto che le cose si compiano; e poi tocca a me, e Marcello ancora continua a parlare quasi non facesse differenza tra un cliente ed un altro. È tardi, dopo il mio turno è rimasto soltanto un anziano che pare stia lì con indifferenza, tenendo lo sguardo perso chissà verso dove, come non avesse, beato lui, alcuna preoccupazione. Io penso, dice ancora, che sarebbe bello per me potermi addormentare su questa poltrona girevole, proprio davanti allo specchio, e svegliarmi soltanto quando tutto sarà sostanzialmente finito. Ma lui invece fa: è un pezzo che non ci vediamo, mentre mi pettina la frangetta. Facciamo un taglio come quelli soliti?, mi chiede mentre già inizia a sforbiciare qualcosa. Annuisco, cerco il più possibile di stare rilassato, non vorrei mai dovergli spiegare qualcosa peraltro piuttosto difficile da dire, e in ogni caso mi sento ancora più nervoso, tanto da immobilizzarmi su questo sedile, pronto comunque a lasciarmi fare quello che a questo punto forse nessuno potrebbe limitare a quelle sue mani.
Naturalmente oggi, ad un tratto, senza che niente di particolare lo avesse annunciato, mi ha chiesto di te, sai mamma, dice ancora Armando; come fosse una domanda qualsiasi, la sfumatura di un argomento normale tra tutti quelli che affronta Marcello durante la sua intensa giornata di lavoro. Così mi sono paralizzato, come ogni volta succede, ed ho soltanto detto qualcosa senza alcuna importanza, nell’attesa che anche quel tema passasse. Lui ha continuato a tagliare, ha sforbiciato davanti e di dietro senza alcuna preoccupazione, piegandosi sulle ginocchia come fosse un artista di calibro. Poi ha tolto il telo, mi ha spazzolato fin sulle spalle, ha detto che aveva finito, ed io gli ho dato i suoi soldi, senza neppure guardarlo, fino a quando mi sono trovato con la mano sulla maniglia; e prima che lui mi dicesse come al solito di salutarti, l’ho prevenuto: ciao Marcello, gli ho detto duro, pensando intensamente che non sarei mai più tornato là dentro, in nessun caso. E lui stavolta, con ogni probabilità, ha compreso perfettamente.


Bruno Magnolfi 

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