lunedì 14 novembre 2016

Destino oscuro.

            

            Mi scusi capitano, ma sono sfinito: sarà per l’essere stato rannicchiato per tante ore in questo nido, o anche per il rumore di tutti i proiettili che con fatica forse mi è riuscito di mettere a segno, e pure per il mio dito che a furia di stare sempre premuto sopra il grilletto del mio emmegi, sembra adesso quasi diventato un pezzo di legno, proprio staccato dal resto del corpo. Va bene, sergente, adesso cerco di farti sostituire, ma spero almeno tu abbia tirato giù qualcuno di quei bastardi. Penso di sì, tre o quattro li ho visti infilare di corsa in mezzo a quelle macerie, forse li ho colpiti per davvero. Riposati un po’, non più di cinque minuti comunque: purtroppo un camion dei nostri, non molto lontano da qui, è saltato poco fa sopra una mina, e dal comando ci hanno chiesto di mettere su, proprio dove siamo noi, un avamposto per l’artiglieria. Ed io non so se ce la faremo, visto che su quel camion c’erano dei rinforzi destinati proprio a noi, che adesso non so nemmeno quale fine abbiano mai fatto.
            Ho bisogno di riposare, capitano, e anche di calma: se vado ancora avanti in questo modo, rischio di fare delle cose insulse. Lo so, lo so, ma se non proseguiamo col fuoco addosso a quei musi di scimmia, quelli tirano su la testa, riprendono fiato, si renderanno conto velocemente che siamo solo in pochi dietro queste case. Sergente, so che posso contare sul suo appoggio incondizionato, ed anche se lo sforzo che le chiedo risulta per lei notevole, ed io me ne rendo conto benissimo, l’ordine perentorio in queste condizioni è quello di tornare al più presto possibile alla sua postazione. Non posso, dice allora il sergente, non ce la faccio; piuttosto mi espongo al fuoco nemico, mi arrendo, fingo di essere stato colpito e mi sdraio in mezzo alla polvere. Non dica sciocchezze sergente, non siamo venuti qui per giocare, il nostro dovere viene ancora prima di tutto.
Va bene, però adesso mi metto qui, dice lui mentre si siede con la testa tra le mani; mi pare quasi impossibile essere arrivato fino a questo punto. Perché vede, capitano, a me quella gente che abbiamo di fronte, non ha fatto proprio nulla di male, e forse comprendo anche il loro punto di vista, considerato che siamo noi ad essere giunti fino qui a sparargli addosso e farli fuori. Non diciamo sciocchezze, sergente, la guerra non è qualcosa che decidiamo io e lei su delle basi così sciocche e superficiali, ci sono sicuramente interessi più alti e più importanti che hanno determinato queste azioni, noi dobbiamo solo obbedire e fare al meglio possibile il nostro dovere. Va bene, fa lui, ma adesso che ho visto da vicino che cosa significa tutto questo, mi sento quasi un obiettore di coscienza, tanto mi ripugna il sangue che devo far versare; e tutta quella gente che ho inquadrato nel mirino, mi ricorda parecchio molte delle persone del mio paese, gente uguale a me, insomma.
Sergente, non mi costringa a metterla agli arresti. Questi non sono discorsi degni di un soldato. Può darsi capitano, dice lui, però qualche dubbio può prendere a chiunque, non le pare possibile anche a lei? Senta sergente, non c'è più tempo per stare a tergiversare: o torna al suo posto, oppure disobbedisce ai miei ordini, prenda una decisione finale. Faccio poco volentieri quello che mi chiede, dice lui; tra due minuti andrò ad infilarmi di nuovo dentro il buco, dietro ai sacchi di sabbia e camuffato tra le pietre, ma oramai non sono più convinto di un bel niente, vorrei morire io al posto di qualcun altro a cui debbo sparare, mi pare tutto diventato così poco credibile. Ecco, sergente, le dò un po' d'acqua dalla mia borraccia, spero che bevendola assuma anche un po' del mio coraggio. Lo spero, capitano, ma può anche darsi che nella confusione riesca a versare tutta l’acqua nella polvere, tanto mi tremano le mani pensando a quei suoi ordini. E forse anche al suo destino.


Bruno Magnolfi

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