martedì 30 giugno 2015

Senza memoria.



C'è come una presenza inspiegabile nel vecchio magazzino degli attrezzi in fondo al giardino di casa sua. A lui piace andare là in questa stagione, quando nel primo pomeriggio oltre la recinzione non si vede proprio nessuno in giro, ed il sole batte forte sopra al tetto di lamiera, tanto che dentro nel gran caldo si sente soltanto l’aria asciutta e immobile, ed una mosca o due che ronzano nell'aria, e poi più niente. Sta lì fermo per un po', come in attesa, nel silenzio, si guarda attorno lentamente per abituare gli occhi alla penombra, e poi, dopo lunghi minuti, finalmente eccolo, il primo piccolo rumore provenire da un angolo zeppo di roba e cianfrusaglie. E’ uno scricchiolio, un movimento di carte e piccoli oggetti, ed arriva sempre insieme come ad un frusciare di stoffa, forse di vestiti.
Potrebbe essere un topo, pensa, o un grosso insetto, ma a lui piace immaginare qualcosa di diverso, anche perché quei rumori dopo un po’ si fanno radi e insoliti, quasi il blando eco di minuti e ordinari movimenti come di una persona probabilmente abitudinaria. O almeno lui qualche volta crede questo, comunque sia, senza neppure cercare di smontare troppo questi suoi pensieri. Ascolta, ed è come vedesse davanti a sé la sagoma di qualcuno che sta lì, nella penombra, in piedi, e forse muove lentamente una gamba, poi appoggia sull'arto tutto il peso del suo corpo, infine tocca qualcosa con la mano, mentre lascia l’altra infilata in una tasca.
Passa un amico da casa, per combinazione, e lui lo porta con sé nel suo capanno, rispondendo probabilmente ad una forte voglia di spiegare, o forse di confidarsi con qualcuno. Stanno immobili, ambedue, ed i rumori non si fanno neppure troppo attendere, dopo che le prime gocce di sudore imperlano le loro fronti. L'amico dice che secondo lui dovrebbe mettere una trappola, c'è sicuramente un piccolo animale da qualche parte, ma lui sorride, nervoso, dice che no, non è così, anche se l'altro insiste. Ascolta, ascolta bene, fa ancora lui. Un fantasma abita qui dentro.
L'amico ride, e lui si arrabbia; porgi le orecchie attente, dice ancora, e intanto gli abbassa la testa mettendogli una mano sopra al collo. L'altro si china, ma è infastidito, vorrebbe quasi andarsene, poi cerca di scansare quella mano con una mossa svelta, poco arguta, ma lui comprende il tentativo e lo pigia ancora di più, a mostrargli netta la propria volontà e ciò in cui crede. L'amico a quel punto scivola, o forse perde l'equilibrio, allunga una mano svelto, ma non ce la fa a riprendersi, e allora sbatte su un attrezzo, e alla fine cade lungo disteso con un grosso taglio nella testa. Sangue, lui non riesce a sopportare quello che all’improvviso sta proprio capitando, quella situazione così inattesa, ed i rumori che adesso sono anche maggiormente intensi di qualsiasi altra volta, mentre tutto trema e sta come sfuggendo a qualsiasi comprensione, così come il suo amico che sembra assurdo mentre si lamenta e contemporaneamente impreca contro di lui, contro quelle sue stupide manie.
Lo colpisce duro con la prima cosa che si ritrova tra le mani: come si fa a non capire tutto questo, dice forte, come si può essere cosi miopi. L'amico giace a terra, tramortito, i rumori intorno sono fortissimi, a lui pare quasi sia già scesa la sera, sia già buio fuori da quel suo magazzino abbandonato, ma si riprende, si guarda attorno, non ha paura, allunga il braccio, aiuta il suo amico a rialzarsi, a rimettersi in piedi: via, gli dice, usciamo subito da qui; va tutto bene, andiamo in casa a medicarci, tutto è già finito, tra poco non ci ricorderemo neanche più di questi fatti, domani forse sarà un giorno qualsiasi, non avremo neppure un debole ricordo di tutto questo, niente, assolutamente, perché domani tutto probabilmente sarà già stato cancellato dalla nostra mente.


Bruno Magnolfi

lunedì 22 giugno 2015

Senso di colpa.

           
            Perché mai devo stare chiuso qua dentro, rimanere dietro ai vetri di questa finestra ed accontentarmi solamente di osservare una realtà in fondo piccola, quasi insignificante? Sono già diversi giorni che lui si pone questa domanda, ed anche se si sente ancora debole per via della convalescenza a seguito di una lunga malattia, e nonostante il medico gli abbia prescritto di non uscire da casa e di non fare alcuno sforzo, guarda l’aria aperta lungo la strada di fronte al suo appartamento provando la sensazione di essere come dentro una gabbia. Si muove sulla sua sedia, a volte legge qualche pagina di uno dei suoi libri, ma poi torna lì, a quella finestra, ad osservare semplicemente la gente che passa, il transito ordinario di uomini e donne lungo la via.
            Suona il telefono, e qualcuno timidamente, presentandosi solamente con il nome di battesimo, dice che lo conosce già da un po’ di tempo, che lo vede praticamente ogni giorno dietro a quei vetri, e che prova quasi pena per lui, costretto come si trova in quella situazione. Lui si scuote, dice che quelle parole sono quasi offensive: che è stato gravemente ammalato, e che per questo e nient’altro si trova in quella situazione che normalmente non avrebbe mai accettato; ma l’altro conserva un tono di appiccicosa comprensione, come se gli argomenti con cui sta replicando non avessero quasi importanza.
Lui si innervosisce, alza leggermente la voce, chiede sgarbatamente che cosa desideri dimostrare con quei discorsi senza alcun significato, e quale sia il motivo finale di una telefonata del genere; ma l’altro dice soltanto che è un senso di solidarietà ad averlo spinto fino a quel gesto, e che se è d’accordo potrebbe addirittura passare a fargli una visita, magari perfino quel medesimo pomeriggio. Lui resta perplesso, non si aspettava di certo una cosa del genere, anzi, gli torna proprio strano che possano esserci delle persone preoccupate in questo modo degli altri, ma dice subito, pur ringraziandolo, che non ne sente affatto la necessità, e che in fondo a lui non serve niente. L’altro non si scoraggia, dice che in ogni caso passerà più tardi, giusto per assicurarsi di persona che le cose stiano effettivamente in quella maniera, e lui non riesce ad opporre alcuna resistenza, anche se forse vorrebbe togliersi volentieri dai piedi quello strano scocciatore.
            Riagganciano insieme, e lui prova il moto immediato di uscire da casa, di non farsi trovare, a dimostrazione di come stia già più che bene, e che non ha affatto bisogno di niente e di nessuno. Ma poi, soprappensiero, torna ad avvicinarsi alla sua finestra, anche se adesso prova come una specie di ostilità per i vetri, come se da quella trasparenza giungesse a lui soltanto la curiosità malata e forse tossica della gente che continua a transitare da quelle parti.
            Si siede, spossato, attende, infine qualcuno suona effettivamente il campanello di casa. Gli tremano le mani mentre apre la porta, ma un uomo all’incirca della sua stessa età, che lui non conosce, gli dice gentilmente: buongiorno, eccomi qua. Così lo fa accomodare, si siedono, e restano in silenzio per qualche minuto. Infine quell’uomo dice che adesso deve proprio andarsene, e all’improvviso lui resta solo, di nuovo, accanto a quella finestra. Avrebbe potuto dire chissà quante cose, pensa, intavolare innumerevoli scambi di idee e parlare di mille e più argomenti; ma non l’ha fatto. Forse, riflette, in un caso del genere è giusto provare almeno un piccolo senso di colpa. 

            Bruno Magnolfi


lunedì 15 giugno 2015

Fiducia latente.

            
            Già al primo gradino della scalinata di pietra che conduce proprio alla piazzetta di sotto, dove si fermano gli autobus, mi sono subito reso conto che qualcosa non stava andando come avrebbe dovuto, racconta Eros dal suo letto d’ospedale. Ero arrivato fin lì forse con una fretta eccessiva, ma l’ho fatto soltanto per evitare di perdere la solita corsa del mezzo pubblico su cui salgo ogni giorno, per non giungere tardi al lavoro insomma, e con altrettanta leggerezza, pensando contemporaneamente a mille altre cose, all’improvviso ho avvertito come il peso del mio corpo che si stava praticamente sbilanciando, ed  a quel punto ero già forse troppo proteso in avanti, tanto che quando ho allungato il mio piede destro per cercare di riequilibrarmi, in quell'esatto momento ho subito immaginato che stavo ormai per cadere sopra ai gradini. La mia scarpa difatti è inciampata in qualcosa, in una sciocchezza qualsiasi, in un niente, proprio nello stesso attimo in cui anche la fiducia nella mia capacità di riequilibrio perdeva del tutto consistenza; e poi naturalmente da lì a rovinare a faccia in giù è stato giusto un secondo.
            Non ha importanza il resto, dice ancora Eros; ora sono qui, e tutti fino adesso sono stati cortesi con me, soccorrendomi e medicandomi come meglio di cosi non potevano fare; ma è in questo momento che sento di aver perso per sempre la convinzione che riponevo in me, nel mio saper muovermi, camminare, correre, andare dappertutto senza problemi, lungo tutte le strade della città, come ho sempre fatto fino ad adesso. Mi sento demoralizzato, questo è il punto, e non ha assolutamente nessuna importanza guarire più o meno in fretta dalla frattura scomposta a questa stupida caviglia.
            Il compagno di stanza lo ascolta, alza le folte sopracciglia, segue per bene il suo ragionamento, ma non dice a sua volta quali siano le  preoccupazioni che lo assillano, quali i suoi malesseri, o i pensieri ai quali si rivolge, come forse lui in un'occasione del genere si sarebbe aspettato. Perché quasi quasi Eros avrebbe voglia di svago, di ascoltare altre cose, liberarsi in parte la mente da quel suo opprimente pensiero. Al contrario, l'altro dice soltanto che in fondo tutto in certi casi assume un suo senso, e che una battuta di arresto ogni tanto forse ci vuole, è quasi benefica, anche per far rientrare nel proprio alveo naturale la troppa spavalderia, quel sentirsi persino troppo sicuri di sé. Eros lo interrompe, sostiene subito che non ha mai provato prima una sensazione del genere, e che in fondo non è neppure mai stato troppo sicuro di sé e delle sue capacità, anche se adesso effettivamente tutto gli pare sfuggirgli di mano, quasi fosse all’improvviso addirittura un’altra persona.
L'altro lo guarda, probabilmente comprende i suoi sentimenti, ma ugualmente sembra non dare troppa importanza a quelle inquietudini eccessive, come se tutto dovesse sistemarsi comunque, indipendentemente da ogni congettura. Non c'è da preoccuparsi, gli dice; l'aspetto che nasce da una piccola vicenda del genere è quello per cui siamo tutti estremamente vulnerabili, inutile pensarla diversamente. Eros ascolta, e infine lo guarda più attentamente: se ci riflette un po' meglio gli pare quasi di avere già conosciuto in passato una persona come adesso gli appare quel casuale vicino di letto. Ma resta in silenzio, pensa qualcosa, ed alla fine dice soltanto: si, è proprio così; senza avere neppure altro da dire.

Bruno Magnolfi