lunedì 26 gennaio 2015

Tutto il dovuto.

          
            In una tasca della giacca ho con me un coltello. Un temperino, a dire il vero, una lama di pochi centimetri che si ripiega dentro al manico, però ben affilata, e con la punta estremamente aguzza. Mi sento sicuro quando con indifferenza infilo la mano là dentro e lo ritrovo lì, ogni volta che mi va, tutti i giorni che voglio. Giro per strada, mi fermo alle panchine, magari davanti a qualche negozio, ed il coltello resta ogni volta al proprio posto, posso sentirlo sempre con la punta delle dita. Potrei usarlo, se volessi, estrarlo all’improvviso e spaventare qualcuno; oppure difendermi, mostrare che non sono un pappamolle qualsiasi che ha paura di mostrare ciò che vale.
            Sorrido, avendo bene in mente tutto questo, specialmente quelle volte che vado fino all’ufficio postale, per farmi consegnare i soldi della mia pensione di invalidità. Perché non posso lavorare, ho avuto una brutta malattia, una forte depressione che mi ha lasciato privo di forze, incapace di intraprendere qualsiasi cosa. Così mi metto lì, in fila dietro gli altri, meditando qualcosa di rabbioso che non so proprio dove mi nasca, e non riesco neppure a immaginarmi su chi alla fine debba scaricarlo.
Oggi poi, mi fermo davanti a una vetrina, osservo a lungo qualcosa, resto per un po’ a guardare la mia immagine riflessa, ma ad un certo punto esce il negoziante, e mi chiede con un brutto modo di fare se c’è qualcosa là dentro che magari possa interessarmi. Vorrei dirgli di no, che non mi frega niente né di lui né del suo negozio, ma non gli rispondo nulla, perché mai dovrei rispondergli, penso con completa convinzione. Vorrei fargli un gesto, ecco, qualcosa come per dire: ho capito, me ne vado, ma senza volere così facendo tiro fuori improvvisamente il mio coltello, ed anche se la lama è ancora richiusa nel proprio manico, il gesto probabilmente appare più che eloquente, tanto che quello rientra in fretta e furia dentro la sua bottega. Gli vado dietro per cercare di spiegargli qualcosa, ma quello è già al telefono, sicuramente sta chiamando delle guardie. Torno subito in strada, mi guardo attorno, estraggo la lama quasi con rabbia e tenendo il mio coltello ben saldo nella mano proprio davanti a me, scappo via lungo la strada.
Forse per colpa dell'abitudine, non so, ma quasi per un automatismo, tutto sudato, trafelato e ormai col fiato grosso, mi ritrovo ad entrare dentro al solito ufficio postale dove vado sempre. Registro gli sguardi di tutti su di me, sento intorno anche degli urli, ed immediatamente le persone presenti che vanno a sistemarsi tutte da un parte, anche se a me viene quasi da sorridere. Mi avvicino come ogni volta allo sportello: la mia pensione? faccio all'impiegata cercando di essere ironico. Quella tira subito fuori tutti i soldi che ha nel suo cassetto e me li passa, un bel gruzzolo, devo dire, così li prendo, li caccio in una tasca e con tutta calma esco dall'ufficio.
Sto bene, nella mia mente non c'è niente adesso, mi sono fatto dare soltanto i soldi per vivere, penso, in fondo era un po’ doveroso da parte di tutti. Appena ho potuto il mio coltello l’ho gettato tra i rifiuti, e comunque non credo ci saranno grosse conseguenze per tutta questa storia. Ma per adesso non credo di tornare a casa mia, giro per strada quasi senza meta, guardo tutta la gente che va di fretta e che mi pare adesso sia composta da persone molto più serene di me. Ripenserò con calma a tutto quanto, mi dico, perché credo di aver smarrito qualcosa che adesso non saprei neppure definire. Però sono vivo, questo mi pare l'importante.


Bruno Magnolfi

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