giovedì 31 dicembre 2015

Armonia lieve.

            
            Se Lido non è d’accordo non si fa niente, dice Carlo. Va bene, fa l’altro, allora non resta altra strada che cercare in qualche modo di convincerlo. Comunque ci vuole soltanto un minimo di preparazione, cercare semplicemente le parole giuste per presentargli bene tutta quanta la faccenda. Non credo sia difficile convincerlo, anche se lui non è certo un tipo facile. I due intanto camminano, percorrendo il largo marciapiede del viale senza alcuna fretta apparente, con le mani sprofondate nelle tasche e continuando a guardare ognuno avanti a sé, quasi come se fosse da solo.
A mio parere non è affatto il caso di perdere questa occasione, insiste Carlo, e non soltanto perché altrimenti in seguito potremo pentirci di non averne approfittato. Non so, fa l’altro, forse anche noi prima di parlarne con Lido dovremo far passare ancora del tempo, proprio per evitare di lanciare una proposta non sufficientemente meditata. Ma no, questa credo proprio sia una sciocchezza, perché sicuramente anche lui, se riusciamo a parlargli con calma e cercando di spiegargli bene le cose, non potrà che essere d’accordo con noi.
Andiamo al caffè adesso, propone l’altro, così possiamo sederci e prendere magari qualche appunto per fissare bene le idee, e se poi abbiamo fortuna troviamo Lido là dentro e possiamo intanto sondare il terreno. D’accordo, fa Carlo, ma prima camminiamo almeno per un’altra mezz’ora, sento che mi fa bene passeggiare, e poi la giornata è chiara e piacevole, fatta apposta per stare all’aperto, almeno fino a quando non si fa sera. Forse hai ragione, dice l’altro, anche se a me pare di sentirmi un po’ stanco. E’ solo un’impressione, almeno per adesso, dice Carlo: quando sarai davvero stanco andremo immediatamente al caffè, te lo prometto.
E’ davvero tanto tempo che non facciamo qualcosa tutti e tre assieme, dice l’altro; per conto mio sarei contento se Lido fosse d’accordo con noi, però mi dispiacerebbe se si mostrasse riottoso e con le sue solite maniere divaganti declinasse in fretta e furia la nostra proposta. Questo non si può dire, fa Carlo; in fondo anche a lui magari fa piacere che ancora ci ritroviamo a combinare qualcosa, come facevamo certe volte, ormai parecchio tempo fa. Questo è vero, dice l’altro, però non vorrei si rompesse anche quel minimo di equilibrio che ultimamente abbiamo ritrovato tra noi.
Su questo hai ragione, fa Carlo; anche a me dispiacerebbe se si perdesse in qualche modo questa nostra armonia: abbiamo vite diverse, questo è innegabile, ma ciò non significa che non possiamo ritrovarci in certi casi intorno a qualcosa che ci accomuna. Tutto ciò sarebbe molto bello se fosse davvero così, fa l’altro; peccato che qualche volta Lido sembra come non esserci, quasi stesse con noi quelle poche volte non per una sua voglia personale, ma quasi per fare soltanto un favore a noi due. Lo sai, dice ancora Carlo, lui è fatto così, da una persona che ha il suo carattere praticamente non si può pretendere molto di più.
Intanto camminando arrivano davanti al solito caffè, e sui tavolini di fronte c’è proprio Lido seduto che sta scherzando con qualche altra persona. Però si volta, saluta festoso gli amici con il suo solito sorriso, e poi dice: sono di partenza, lo stavo giusto dicendo a questa brava gente; starò da mio figlio almeno per un mese, a Roma. Ho bisogno di cambiare aria e di togliermi di dosso qualche vecchia abitudine, e poi, chi può saperlo, magari finisce che mi trasferisco definitivamente.

Bruno Magnolfi


domenica 27 dicembre 2015

Soli un momento.

      

Giusi assume sempre un'espressione severa quando viene osservata da qualcuno un po’ troppo a lungo. Non che le dispiaccia particolarmente essere guardata da qualche curioso, però certe volte vorrebbe essere più trasparente persino di quei colori pastello sfumato con cui normalmente trucca il suo viso. Soprattutto le dispiace che venga presa per una ragazza superficiale, una di quelle persone che senza neppure pensarci risponde come niente ad una semplice occhiata. Perciò spesso quando si mette seduta al solito caffè in attesa che arrivino le sue amiche, tira sempre fuori un libro dalla sua borsa, lo apre fino al segno, e ne legge ad intervalli almeno qualche pagina.
Giusi in fondo adora starsene da sola in mezzo alla gente, per questo giunge lì sempre molto in anticipo, ed in questi casi si muove lentamente come non avesse alcun interesse preciso, lasciando sempre che tutti gli altri parlino tra loro, senza mai interferire, come se lei non ci fosse nemmeno. Se qualcuno le dice qualcosa, si limita a sorridere, poi subito ritorna al suo libro. Arriva lì prima delle sue amiche proprio per avere il tempo come di formare nel locale una sua piccola nicchia di appartenenza, un proprio piccolo spazio da dove, quasi non vista, osservare e sentire tutto ciò da cui è circondata. Fa parte del suo carattere, forse un semplice lato della sua insicurezza. 
Un ragazzone però fa cadere qualcosa vicino a lei: potrebbe essere una tecnica di approccio, pensa Giusi guardandosi un attimo attorno. Ma il tizio vicino sembra non curarsi affatto di lei, così come del suo libro e di quel quaderno a terra ora aperto, zeppo di minuta calligrafia, che gli è appena scivolato dal tavolo. Lei lo raccoglie con calma, quindi gli sfiora un braccio, e gli dice soltanto: è caduto. Il ragazzo si volta, la guarda, prende con modi gentili il quaderno, ringrazia con un sorriso leggero, ma senza aggiungere altro torna a sistemarsi nella stessa posizione di prima. Poi però apre il quaderno, e sembra subito appuntare qualcosa con un semplice lapis, quasi come per fissare una nota che la riguardi, oppure per definire in qualche maniera quel gesto carino che lei ha appena compiuto.
Giusi torna al suo libro, ma non si sente tranquilla. Di nascosto osserva il ragazzo, vorrebbe chiedergli persino qualcosa, ma non può andare così apertamente in contrasto con le proprie abitudini. Infine appoggia il suo libro, prende un sorso della bibita che le ha servito da poco il cameriere, e vede fuori dalla vetrina le sue amiche mentre stanno chiassosamente arrivando. Nello sesso momento il ragazzo si volta, la guarda un momento, sembra proprio abbia finito di scrivere sul suo quaderno, ma inaspettatamente strappa la pagina, la piega in due parti e la consegna nelle sue mani. Arrivano le altre ragazze, lei si alza, saluta le amiche, scambia con loro qualche battuta e quando torna a sedersi il ragazzone di prima non c’è, si è alzato da quel tavolo accanto, e sta uscendo frettolosamente dal bar.
Giusi si alza anche lei, va verso il bancone, si accosta ad un angolo per starsene un attimo sola, ed apre quel foglio che è rimasto fino adesso nelle sue mani. Aiuto, dice la carta, sto vivendo un momento di disperazione. Lei alza gli occhi, vede il ragazzo di prima fermo da solo fuori di vetri di quel locale. Torna al tavolino delle sue amiche, si siede, dice che non si sente benissimo, forse ha soltanto bisogno di aria, così torna ad alzarsi, si dirige all’uscita e si ferma proprio sul marciapiede di fronte al locale, davanti a lui. Scusa, le dice subito il ragazzone di prima; ho pensato che non ci sarebbe stata altra maniera che questa, per poter stare da solo con te, almeno un momento.


Bruno Magnolfi

mercoledì 23 dicembre 2015

Partenza coatta.



Forse sarebbe stato tutto diverso adesso, se solo lui avesse avuto una briciola di coraggio in più quando serviva. Sta seduto al caffè in questo momento, da solo, e aspetta, come d’altronde fa quasi ogni giorno. Sorseggia una birra con lentezza, poi si alza dal tavolino ed esce. Fuori dal locale sembra tutto identico, lui si incammina verso casa come sempre immerso in pensieri evanescenti e inutili. Continua a sentire il bisogno di cambiare quell'ordinario comportarsi, ma per lui è difficile prendere lo spunto giusto, l'inizio adatto per variare almeno qualche cosa. Infine giunge davanti al solito portone, sale le scale ed entra dentro al suo appartamento, e poco dopo torna a sedersi. Potrei telefonare ad un amico, pensa senza voglia, chiedergli di raggiungermi magari per parlare un po', per scambiare giusto qualche opinione, trascorrere insieme un'ora o due. Invece alla fine si alza, e repentinamente cambia del tutto idea: va sul pianerottolo e con decisione suona il campanello della famiglia che abita di fronte.
Non si aspetta niente di speciale da quella mossa, conosce solo di vista le persone che abitano lì, ma avverte subito un vago e sgradevole odore di minestra nell’aria, proprio quando appare sulla porta la faccia sorridente di una ragazzina che gli dice subito che può accomodarsi, può entrare se vuole, che suo padre è di là, alla televisione. Lui entra, stringe la mano alla moglie lungo il corridoio, poi scusandosi con tutti raggiunge l’uomo, seduto sul divano, che sorride e gli dice soltanto di mettersi a suo agio, senza porsi alcun problema. Restano soli nella stanza, la televisione quindi viene spenta, l’uomo gli offre mezzo bicchiere di vino rosso, usa modi distensivi. Ho bisogno di aiuto, fa lui, ma non so mettere a fuoco di che cosa effettivamente abbia la necessità. Forse soltanto di parlare, o di un consiglio, o di scambiare delle opinioni con qualcuno. Il vicino lo guarda in silenzio, quindi si alza, gira per la stanza, assume subito un modo strano di comportarsi almeno in sua presenza. Alla fine dice di scusarlo giusto per un attimo, e lo lascia da solo ma non per molto tempo effettivamente. Quando torna però ha in mano una pistola, e gli dice senza mezzi termini di andarsene da lì, che ha capito benissimo i suoi intenti, e che non avrà alcun indugio a sparargli in una gamba se si farà ancora vedere in quella casa.
Lui se ne va immediatamente, sorpreso e quasi incredulo di quel comportamento, ma una volta rientrato nel proprio appartamento riflette che l’arma che ha visto doveva essere probabilmente soltanto una pistola giocattolo, e che il suo vicino, forse spaventato da qualcosa, doveva aver compreso male i suoi intenti e anche tutte le sue parole. Così torna a suonare il campanello per scusarsi, per comprendere, ma quando gli viene aperto è l’uomo in persona sulla soglia, che senza dargli neppure la possibilità di aprire bocca gli sferra un pugno nello stomaco, atterrandolo. Strisciando in qualche modo sul pavimento lui rientra, chiude l’uscio dietro di sé ma poi si sente subito male, così decide di telefonare alla guardia medica che lo fa trasferire d’urgenza ad un pronto soccorso. Lui spiega di essere caduto, per non procurare dei problemi, ma la cosa sembra seria, così lo trasferiscono in una corsia dell’ospedale per accertamenti. Rimarrà là dentro per diversi giorni, fino a quando viene dimesso perfettamente guarito.
Lui ha avuto possibilità di riflettere durante il tempo in cui è rimasto a letto, ma ancora non sa spiegarsi il comportamento del suo vicino. Decide di ignorare tutta la vicenda e di comportarsi come se niente fosse successo, scansando ovviamente d’ora in avanti tutti i componenti di quella stranissima famiglia, ma quando giunge nel suo appartamento trova una busta chiusa con dentro un foglio con su scritto: devi reagire, smetterla di leccarti le piccole ferite, finirla una buona volta di credere che le novità positive possano giungere soltanto dall’esterno. Nessuna firma e nessun riferimento. Lui così si siede, rilegge ancora quelle frasi, poi alza il telefono, e chiama uno degli ultimi amici su cui ancora può contare: devo partire, gli dice, non c’è proprio alcun motivo per rimandare ancora.


Bruno Magnolfi

venerdì 11 dicembre 2015

Sfida insensata.

            

            Dentro a questo salotto i mobili e gli oggetti della stanza risultano adesso perfettamente in ordine, come raramente succede, anche se lei, purtroppo anche stasera, sembra proprio desideri soltanto rimanersene nervosamente in piedi, stando lì accanto ad uno dei finestroni, come per osservare con attenzione chissà mai cosa fuori dai vetri, visto poi che la panoramica sulla strada che corre di fronte è sempre la stessa da sempre. Siediti, le dice lui perentorio con quei suoi modi da persona che tende normalmente a mostrarsi superiore, mentre intanto continua a gingillarsi con qualcosa di apparentemente prezioso che tiene tra le mani.
            Ho male allo stomaco, è meglio se evito di piegarmi, e scongiurare così che mi riprenda da vomitare come poc’anzi, dice lei mentre intanto prosegue ad osservare ancora qualcosa lungo quella strada da cui sembra costantemente attratta. Bene, fa lui, in ogni caso non c’è oramai molto da dire, i fatti mi sembra siano chiari a sufficienza.Tu che cosa ne dici? Seguono alle sue parole alcuni attimi di ordinario silenzio in cui l’uomo parrebbe provare come il desiderio di una conferma da parte di lei, magari di un semplice assenso, o forse soltanto di una semplice parola di accettazione circa la dichiarazione che ha appena pronunciato, ma in mancanza di tutto ciò riprende subito a dire: in ogni caso io sono stufo, ed ora mi tiro fuori da tutta questa faccenda.
            Lei si volta, sembra quasi punta sul vivo, lo squadra con grande determinazione, poi, dopo aver scelto con cura ogni parola per esprimersi, dice soltanto: non c’è affatto da meravigliarsi. Lui si muove di qualche passo senza neanche guardarla, sembra quasi prendere tempo, scegliere a sua volta le parole più adatte per difendere in qualche modo la sua posizione, ma infine si ferma, appoggia il posacenere di radica che teneva tra le mani sopra un ripiano davanti a sé, e poi resta lì, come immerso in chissà quali pensieri.
Vorrei soltanto che si fosse stati così lungimiranti da prevedere con anticipo una cosa del genere, fa lei sottovoce senza muoversi minimamente; adesso invece siamo tutti perdenti, ma forse proprio per questo non dovremmo apparire anche dei codardi. Non si tratta di questo, fa lui mentre si gira forse per dare maggiore risalto alle sue parole. La faccenda a me pare chiusa, inutile cercare di andare avanti ulteriormente. I due adesso sono a pochi metri di distanza, ma la forte lontananza tra loro si percepisce perfettamente, anche soltanto nelle espressioni degli occhi. E agli altri soci ora cosa dovremmo dire, fa lei: che sapevamo perfettamente prima o dopo di arrivare a questo finale, ma che nonostante ciò abbiamo cercato di tenerci su una linea di cauto ottimismo solo per fare ancora dei tentativi alle loro spalle, ed insomma per prenderli in giro?
No, certo, fa lui; alla riunione dovremo sostenere di aver fatto il possibile per tenere in piedi le nostre attività, ma poi è intervenuto un elemento improvviso che ci ha tolto ogni possibile tentativo. Lei si volta, come per osservare bene la faccia di lui, poi chiede:  e quale sarebbe, questo elemento, avanti, sentiamo. Non so, dice lui, potremmo sostenere che dai nostri clienti non ci sono più stati richiesti servizi, che anche noi non abbiamo avuto idee nuove, o che la banca ci ha messo delle condizioni piuttosto difficoltose. Lei torna a guardare fuori dai vetri, in silenzio. Lui riprende in mano il pezzo di radica. Va bene, pensa lei guardando ancora la strada; in fondo mi chiedo quale significato può esserci in questa sfida portata avanti ancora soltanto da te e da me.


Bruno Magnolfi

mercoledì 2 dicembre 2015

Evidenti tensioni.

            
            Avanti non c’è niente, pur continuando a costeggiare la bassa recinzione di un anonimo giardino pubblico, se non un gruppo di luci piuttosto fioche sopra dei lampioni arrugginiti che rischiarano come possono un piccolo parcheggio ora deserto. Lui cammina, sprofondato nei suoi pensieri, come perso alla ricerca costante di una soluzione che purtroppo non trova. Tu non ascolti mai gli altri, ha detto lei al culmine di un altro litigio, ed in fondo è soltanto questo che lo ha spinto ad uscire come per prendere aria e forse cercare di riflettere bene su quelle parole; anche se alla fine tutto ciò non assume adesso alcun senso, e non c’è neppure possibilità, almeno in questo momento, di ricordare esattamente quale sia stato davvero il motivo iniziale dello scontro tra loro. Normale avere battibecchi del genere, pensa lui; ognuno ha il suo carattere, e ci vorrebbe l’intuizione di un genio per comprendere cosa l’altro si aspetta davvero. Sciocchezze, si ripete mentalmente, non sarebbe neanche il caso di parlarne.
Un ragazzo gli cammina decisamente incontro, avrà poco più di vent’anni, probabilmente lo fermerà per chiedergli semplicemente una sigaretta. Invece all’ultimo momento lo ignora, gli passa alle spalle, anche se dopo un attimo sente chiamare qualcuno da qualche parte che in questo momento non riesce neanche a vedere. Avverte però del movimento su un lato del suo campo visivo, così si ferma, quasi per una intuizione, cerca di comprendere che cosa stia succedendo, ma il colpo sopra la testa gli arriva improvviso, fortunatamente non troppo forte, ma senza che se lo sia minimamente aspettato. Cade a terra, e per istinto si abbraccia a se stesso, come cercando una qualche protezione, ma nessuno di fatto tenta di infierire ulteriormente su di lui. Perciò dopo un attimo riapre i suoi occhi, si scioglie, lentamente tenta di rialzarsi, ma sono in tre o quattro a circondarlo, ed ora li teme. Li scruta, assume l’espressione di chi non capisce affatto cosa succeda, non sa neppure che dire, e gli altri lo guardano e basta.
Nessuno sembra voler dire niente, lui così mentre li guarda pensa alla sua casa tranquilla e confortevole, vorrebbe quasi urlare per sciogliere quella tensione che si è andata accumulando, ma uno di loro improvvisamente dice soltanto: è lui, e nient’altro. Uno scherzo, dice invece lui a mezza voce: io non vi conosco, ma non può essere altro che in questa maniera. Datemi una mano per rimettermi in piedi, ci fumiamo assieme una sigaretta, e poi ognuno se ne va per la sua strada. Però spunta una pistola, uno la spiana, dice semplicemente con voce calma che nessuno ha voglia di fare degli stupidi scherzi. Lui si vede già morto, sdraiato su quel marciapiede di periferia dove verrà ritrovato da qualcuno col cane la mattina seguente. Non dice niente, può capitare anche questo, pensa senza altre idee.
Qualcuno invece dall’altra parte di quella strada dice qualcosa con voce alta, forse c’è un attimo di incomprensibili scelte da prendere, tutti corrono fuori dal campo visivo, lui si rialza, si tocca la testa, aspetta che chi ha appena parlato lo raggiunga in fretta e magari gli spieghi qualcosa. Invece si volta, e non c’è più nessuno, accanto gli rimane soltanto il lampione neutrale che prosegue con una noiosa vibrazione elettrica. Lui raggiunge una panchina, si siede, gli pare tutto quanto qualcosa di assurdo, a questo punto forse dovrebbe rientrare e spiegarsi, ma invece dopo un attimo attraversa la via, inizia a correre, si dirige in fretta verso un caffè ancora aperto, e poi vi entra deciso.


Bruno Magnolfi

lunedì 23 novembre 2015

Risate liberatorie.

            

            Il rumore dei macchinari in funzione là dentro non è fortissimo, però è già sufficiente per costringere chiunque si trovi ad operare nel grande capannone dell’officina a parlare a voce molto alta, tanto da scoraggiare in genere qualsiasi discorso che non sia giusto una battuta di appena due o tre parole. Ai più anziani tra coloro che lavorano là dentro basta spesso una semplice occhiata per scambiarsi un intero concetto, specialmente quando si sa che da un momento all’altro potrebbe passare tra i corridoi per la verifica proprio lui, il loro responsabile tecnico. Tutti lo odiano, naturalmente, ma forse oramai più per abitudine che per un qualche motivo preciso.
Lui controlla i tempi, la qualità del prodotto, la sicurezza delle attività, il comportamento di tutti gli operai, e nei suoi confronti generalmente ci si sente già abbastanza furbi nel mostrare un certo grado di finta indifferenza verso quelle che tutti chiamano le sue stupide indagini. Si muove in mezzo ai macchinari come se sapesse perfettamente che tutti cercano di raggirare in qualche modo il suo sguardo sottile, così molte cose finge addirittura di non vederle, ma lo fa soltanto per conservare così delle carte da spendere al momento più opportuno. Già, perché il suo modo di comportarsi è quello di non obiettare mai un bel niente a nessuno, anche quando magari sta alle spalle di uno dei lavoratori per osservarne ogni movimento, forse anche perché dovrebbe quasi urlare per farsi comprendere adeguatamente, e questo non è affatto nel suo stile. Al contrario, quando l’operaio preso di mira magari non se l’aspetterebbe neanche più, o quando si vanno a sommare due o tre elementi diversi e negativi, anche pur marginali ma per lui assolutamente rilevanti, ecco che il lavoratore viene chiamato nel suo ufficio tramite gli altoparlanti, ed è lì che escono fuori in una sola volta tutti i problemi segnalati, lasciando il malcapitato a difendersi da solo in piedi davanti alla sua grande e maledetta scrivania.
Ma oggi è diverso: si è visto sin dalla mattina che qualcosa di pesante nell’aria sembra come incombere su tutta l’officina, quasi un elemento nuovo, strano, intraducibile, che perfino durante la stessa pausa pranzo, nei locali della mensa, ha imposto a tutti di parlare sottovoce, rispondendo alla sensazione diffusa di essere sospettati di qualcosa di terribile. Cinque minuti prima del termine dell’orario di lavoro difatti gli altoparlanti hanno scandito un serio avviso: siete tutti indagati, ha detto una voce metallica al microfono, nei confronti dei danneggiamenti rilevati sulla carrozzeria dell’autovettura privata del nostro responsabile tecnico aziendale. La ricaduta dei provvedimenti che verranno presi sarà un irrigidimento della direzione nei confronti di ogni lavoratore.
Nessuno commenta, tutti rimangono in religioso silenzio, ognuno sa quale sia la lucida vettura presa di mira, e forse a nessuno è venuto mai in mente nemmeno di sfiorarla. Suona la sirena del termine per quella giornata lavorativa, e gli operai raggiungono in fretta gli spogliatoi e i propri armadietti. Tutto peggiorerà adesso, dice qualcuno appena bisbigliando. Però non ha alcuna importanza: indietro non si può più tornare, perciò affronteremo la situazione così come si presenta, dice qualcuno coraggioso. Nessuno spiega che forse il responsabile tecnico se lo è proprio meritato, però tutti lo pensano, e in ogni caso chissà se verrà mai fuori davvero colui che si è macchiato di un gesto di quel genere. Timidamente uno infine avanza persino l'ipotesi che sia tutta un'invenzione della direzione per irrigidire i comportamenti nella fabbrica, ma poi qualcun altro volta gli occhi sul soffitto, e vede che è stata applicata persino lì in un angolo una micro telecamera. Non ci salveremo, dice: tanto vale farci due risate.


Bruno Magnolfi

lunedì 9 novembre 2015

Tema concluso.

           
            Ammazzami, con voce strozzata dal dolore dice lui nel suo sogno ricorrente alla propria compagna. Di fatto è caduto dalle scale, probabilmente, qualcosa si è spezzato tra le fragili ossa della sua schiena, ed adesso è rimasto lì, impossibilitato a compiere qualsiasi movimento. Altre volte invece è accaduto un semplice incidente d’auto, è stato anche travolto mentre attraversava la strada, oppure qualcuno gli ha assestato una bastonata vile proprio alle spalle. In tutti questi casi lui è rimasto evidentemente a terra, fermo, paralizzato, ed il suo futuro è subito apparso irrimediabilmente compromesso.
            Insomma, ammazzami, finiscimi, le dice, piuttosto che lasciarmi soffrire ancora per chissà quanto tempo, ma lei con estrema freddezza si limita ogni volta soltanto a chiamare i soccorsi. Poi, sempre nel sogno, lui si ritrova convalescente, in un piccolo giardino fresco e silenzioso, seduto ad un tavolino, mentre la sua compagna si occupa di qualcosa, forse alle sue spalle sistema semplicemente una tazza sopra un vassoio, quindi gli va più vicino porgendogli la bevanda, gli dice ciao sottovoce, e infine se ne va, senza alcuna spiegazione.
            Non è tanto starsene solo il problema, pensa lui adesso, quanto sapere di essere stato abbandonato ad un certo punto, lasciato al proprio destino, e neppure con un atto di cattiveria o di disprezzo, quanto con un sorriso, con una parola semplice e quasi dolce, un gesto rispettoso e gentile. Non sa neanche bene chi sia la sua compagna del sogno, forse soltanto una somma del tutto incompleta di alcune tra le donne che ha conosciuto, comunque una persona senz’altro sicura di sé, qualcuna che con ogni probabilità, ad un dato momento, è riuscita a vedere in lui qualcosa di interessante, ad apprezzare almeno un aspetto di rilievo del suo carattere, una dote che magari a lui stesso è sempre sfuggita, ma che in seguito forse si è fatta anche per lei meno importante, tanto da poter essere lasciata in disparte, insieme al resto di quel suo uomo.
            Viene da ridere, lui si è come affezionato a quel sogno, fino al punto di credere che quanto accaduto sia vero, e che tutto sia davvero esistito, prima o dopo, tanto che quegli accadimenti siano proprio tutti reali, come reale sopra ogni fatto sia lei, la sua compagna di sempre. Non le ha mai dato un nome, forse non si è fermato mai a chiederlo, e probabilmente a lei è parso poco importante dirgli chi era, come si erano conosciuti, perché si trovavano lì, insieme, mescolati in quella dolorosa vicenda. Certo, non è affatto importante, pensa lui adesso. Ma quell’ombra sfumata che appare immediatamente dopo che lei si è eclissata, sembra porgere alla mente mille altre domande.
            Per questo lui perfino in questo momento nel suo sogno vorrebbe cercarla, dice, forse semplicemente vorrebbe soltanto conoscere qualcosa di più della sua storia, capire da dove lei sia venuta, e perché. Il medico lo guarda, ha preso appunti sul suo taccuino, o forse ha solo finto di prenderne. Non ha una risposta, si limita a guardare sulla sua scrivania, ad incoraggiarlo per dire ancora qualcosa, per descrivere, spiegare ogni dettaglio, fino a parlare e a parlare sempre intorno a quel medesimo argomento; fino a quando però alla fine tutto diviene troppo noioso, logorroico, antipatico con quel persistere a definire ancora qualcosa; perciò ora basta, è sufficiente così, gli dice, perché questo ormai è un tema concluso.


            Bruno Magnolfi

venerdì 6 novembre 2015

Rumori di fondo.

           

            Oggi sono qui, dice lui alla platea improvvisamente silenziosa. Il microfono e l’amplificazione della grande sala producono un fastidiosissimo rumore di fondo, un forte ronzio che lui immagina di poter coprire soltanto con una serie di applausi scroscianti da parte della gente intervenuta là dentro. Non vi parlerò delle solite cose, dice; non vi annoierò neppure cercando di spiegare gli errori degli altri e della melma in cui stanno annaspando. Poi si prende una pausa, anche perché il collaboratore che gli ha preparato il discorso si è molto raccomandato di rispettare quei piccoli asterischi di cui ha disseminato le frasi sopra i suoi fogli. Comunque, prima di ogni altra cosa, vi ringrazio di essere qui, dice alla fine. Parte da questo punto già un timido applauso, d'altronde una frase così stupida mette comunque sempre tutti d’accordo, pensa lui, e fa sentire i presenti grandi protagonisti, anche soltanto di un generico qualcosa; perciò, con questa linea di credito aperta, riflette ancora, potrò dire adesso persino una qualsiasi strampalata sciocchezza, e questa, anche se addirittura poco compresa, sicuramente sarà ben accolta.
            Ma i piccoli schiocchi di quelle decine di mani lentamente si attenuano, con calma torna il silenzio, ed il rumore di fondo riprende subito a farsi sentire, così lui si ritrova di nuovo distratto, disturbato, quasi innervosito, perciò tocca il microfono, si muove sul palco, scuote i suoi fogli. Ma infine riprende, dopo essersi lasciato andare ad una pausa forse un po’ troppo lunga. Dobbiamo essere concreti, spiega. Il momento non ci permette alcun tipo di errore. Per questo dobbiamo affrontare con forza ogni prossima sfida. E quando sarà il momento, dice adesso quasi con convinzione, sapremo sicuramente essere uniti. Fioccano naturalmente gli applausi, ed anche se quelle parole non significano molto, riescono comunque a prendere ed entusiasmare, quasi come una dichiarazione di guerra contro qualcosa o qualcuno che sembra non sia più possibile ormai sopportare.
            Alcuni fischiano per mostrare di esserci, altri ridono mentre continuano comunque a battere le mani. Sapremo lavorare con coraggio per le cose in cui abbiamo sempre creduto, dice adesso quasi urlando sopra il rumore, anche se non erano previste queste parole sui fogli, e non c’era neppure l’asterisco della pausa subito prima. Torna rapidamente il ronzio, quasi una maledizione che fa senz’altro accorciare qualsiasi discorso. Lui salta uno o due fogli, poi riprende cercando la calma da un punto che gli sembra essenziale: dovremo smetterla di mostrarci arrendevoli; abbiamo coraggio, voglia, entusiasmo; dobbiamo mostrare da ora in avanti tutto il nostro valore. Ma il tono della sua voce in questa frase appare poco convinto, troppo pacato e quasi remissivo, non trascina più quegli applausi che riuscivano a coprire il rumore di fondo.
            Nelle prime file qualcuno sembra voltarsi verso i propri vicini, come a cercare una spiegazione esauriente di quanto va accadendo sul palco. Lui può ancora riuscire a prendere tutti in un pugno e lanciarli in una grande esplosione d’entusiasmo, ma il ronzio ormai lo ha fiaccato, ormai sente soltanto la voglia di andarsene, di smetterla una volta per tutte con quella farsa insignificante. Non mi sento bene, dice alla fine dentro al microfono. Tutti lo incoraggiano, anche se pochi forse credono che questo sia vero. Lui insiste: scusate, ho soltanto bisogno di bere, di aria, di togliermi dalle orecchie questo ronzio, di starmene un attimo da solo, di andarmene da questa sala ormai insopportabile. Adesso il silenzio è fortissimo, onnipresente, eccetto il rumore dell’amplificazione. Lui guarda tutti, poi alzando semplicemente una mano, li saluta solo una volta, senza trasporto.


            Bruno Magnolfi

martedì 3 novembre 2015

Colpa grave ed indivisibile.

            
            Dopo aver sbrigato tutte le faccende di casa, quando infine riesce a ritagliarsi del tempo per sé, a lei piace mettersi seduta, da sola nella sua stanza, e riguardare delle vecchie fotografie che ha accumulato con pazienza, ripescandole alla rinfusa da una grossa scatola di cartone dove solitamente le tiene riposte. La sua vicina, quando sa che lei è in casa, va a trovarla certe volte, tanto per parlare con calma del più o del meno, e lei qualche volta le mostra proprio quelle immagini, ricostruendo i periodi e le vicende delle persone le cui facce affiorano su quei cartoncini lucidi. Poi generalmente si salutano, lei l’accompagna fino sul pianerottolo, la saluta, dice che le ha fatto piacere che sia passata, ed infine richiude la porta.
            Forse l’altra sorride di quegli struggimenti così assolutamente ordinari. Forse chiunque lo farebbe in simili circostanze. Ma non ha alcuna importanza, ognuno è costituito in una propria maniera, inutile stare a criticare o a fare ironie. Lei rientra, sistema le sue cose e mette in ordine la sua piccola stanza. Sua madre adesso è anziana, ma ancora conserva un carattere burbero, non accetta facilmente il disordine, e non le piace neppure che lei si perda in quelle sciocchezze, cosi, pur lasciandola fare, quando la vede affacciarsi alla porta della cucina, le detta subito qualche compito pratico di cui occuparsi, quasi a rompere velocemente quella sua atmosfera sognante attraverso la concretezza delle cose da fare. Certe rare volte le rinfaccia addirittura che i soldi per andare avanti vengono quasi tutti dalla sua pensione, e quelle elemosine che prende sua figlia per fare le pulizie in casa a qualche famiglia di quel quartiere, da sole non servirebbero quasi a niente; lei ovviamente soffre quando ascolta delle parole del genere, ma in ogni caso cerca di non ribattere mai a certi discorsi.
Poi, la prima coltellata che lei infligge a sua madre poco dopo avere iniziato a sbucciare delle patate sul tavolo di cucina, alzandosi dalla sedia come per un gesto normale, è di striscio su un braccio, quasi uno sbaglio di traiettoria. Il secondo colpo, al contrario, è più deciso e diretto, e va preciso di punta all'addome, anche se non è forte, soltanto una robusta punzecchiatura, quasi fosse un avvertimento. La vecchia si accascia, subito si lamenta, lei resta immobile per dei lunghi attimi, infine si porta le mani ai capelli, urla qualcosa, va immediatamente a chiamare la sua vicina di casa. Non è grave, si salverà, dice il medico mentre portano via la madre con la barella, ma io devo sporgere denuncia, il caso non è chiaro, non è proprio possibile che si sia tagliata da sola.
Sono stata io, dice lei con una certa fermezza; se lo è meritato. La vicina presente dentro la stanza è incredula, la guarda in faccia con gli occhi sbarrati, non si rende neppure conto del tutto di quanto stia effettivamente capitando. I carabinieri arrivano in fretta, fanno qualche rilievo e le dicono subito di seguirla, anche se lei sembra già pronta, nella confusione del momento è riuscita perfino a mettere qualcosa di personale dentro una borsa. E’ colpa mia, spiega la vicina ormai in lacrime. Ho dato spago ad un comportamento sentimentale, ho attizzato una brace, mi sono lasciata andare ad ambigui comportamenti. Sono colpevole, spiega, almeno quanto lei.


Bruno Magnolfi

venerdì 30 ottobre 2015

Salvezza insperata.

            

            Uscendo dal locale dove per più di un’ora si è intrattenuto con alcuni conoscenti a bere diversi bicchierini, giusto per trascorrere in qualche modo quella lunga serata ordinaria e quasi inutile, lui adesso non si sente neppure perfettamente in sé, pur riuscendo ancora a camminare quasi diritto e a vedere piuttosto ben definiti sia la strada che il marciapiede di fianco, le cui pietre umide appaiono fortunatamente rischiarate dai lampioni che indicano anche tutto il percorso in direzione della sua piccola abitazione poco distante. Si ferma, una volta apprezzato il fresco della sera e l’aria tersa, quindi incamera un profondo respiro quasi normalizzatore del suo stato, e infine si avvia.
            Non c’è niente di male nel fare un po’ di baldoria ogni tanto, pensa ad alta voce mentre prosegue a camminare. Per istinto, ma non senza un briciolo di preoccupazione, affonda le mani dentro le tasche del cappotto alla ricerca della chiave del portone, già pregustando il suo rientro tra le mura domestiche, ma in mezzo alla stoffa nessun oggetto del genere sembra presente in questo momento. Gli è sufficiente una breve e sofferta ricognizione mentale per rendersi conto di come tutto il suo mazzo di chiavi, così importanti adesso, sia probabilmente rimasto dimenticato magari sopra al tavolo di casa, oppure addirittura nella tasca della giacca indossata al mattino, che adesso è naturalmente riposta dentro l’armadio. In ogni caso l’ora è ormai tarda, e le possibilità per rientrare al suo domicilio appaiono all’improvviso estremamente difficili.
            Ciò nonostante, lui prosegue imperterrito a camminare nella medesima direzione, quasi riponendo così tutte le sue speranze in un qualche miracoloso avvenimento, ma anche immaginando di trovare tutto il coraggio che gli serve per suonare il campanello alla sua odiosa vicina di casa, convincerla della sua sventura, e infine chiederle la possibilità di lasciarlo salire sopra al terrazzino confinante, e da lì, sporgendosi pericolosamente, permettergli di saltare fino alla sua finestra, ammesso naturalmente che questa sia rimasta aperta. Con questi pensieri continua a camminare, pur rallentando leggermente l’andatura ad ogni passo, e in un primo tempo riesce quasi a convincersi come tutto possa davvero andare a buon fine in quella situazione, ma quando ormai è in vista del condominio dove abita, le sue speranze all’improvviso precipitano in maniera quasi definitiva. 
E’ tardi, le finestre sono tutte buie, la sua vicina sicuramente già a letto, e soltanto disturbarla adesso a lui pare un’impresa. In più, nella giornata seguente, coloro che lo conoscono sapranno che il loro vicino chissà come si è trascinato fino là completamente ubriaco, e che senza alcun criterio ha avuto l'impudenza di interrompere la calma e la rispettabilità di un intero condominio, ridendo sguaiatamente per strada assieme a chissà quali amici di bevute, e svegliando tutte le persone ammodo nel pieno della notte. Una persona sgradevole, diranno; uno verso cui non si può più rivolgere neppure un saluto cortese; una figura da isolare e da allontanare al più presto, proprio per evitare in futuro ulteriori sconvenienze del genere. Diranno subito che è stato visto poco sobrio ogni sera, e chissà da quanto tempo a questa parte, che è un tizio ignobile, e soprattutto non merita niente, neppure un minimo di tolleranza da parte di chi lo conosce anche solo di vista.
Con questi pensieri giunge disperato ad appoggiarsi al portone, lo accarezza, osserva i pulsanti dei campanelli così a portata di mano, cerca il nome della sua vicina, anche se uno sgomento improvviso lo prende. Allunga un dito tremante, è quasi sul punto di fare quel passo irreversibile, quando invece si ritrova ad infilare la mano dentro la tasca, quasi con un gesto di orgoglio. Ed ecco, incredibilmente, la sua chiave è proprio lì, in una semplice piega di quella stoffa dove prima non aveva cercato; è salvo, indubbiamente, anche se soltanto per questa volta.


Bruno Magnolfi

giovedì 22 ottobre 2015

Presupposti cambiamenti.

          
            Adesso lui se ne sta soprattutto in casa, spesso per quasi tutta la giornata; dice che la sua salute è precaria, che deve riguardarsi, e che non può permettersi più quella vita che faceva un tempo. Certe volte, durante i pomeriggi di sole, pare che esca soltanto sul balcone, semplicemente per piazzarsi seduto lì, a leggere qualcosa e ad osservare il passaggio della gente lungo la strada di fronte a sé. Chi lo ha conosciuto tempo addietro dice che non sembra più neppure lui: parla poco, è sempre serio, evasivo, si guarda attorno senza cambiare quasi mai espressione, limitandosi spesso ad osservare qualcosa come di invisibile davanti a sé.
            Franco va a trovarlo certe volte, gli parla degli ultimi avvenimenti, degli amici comuni, ma anche delle innocue scorribande che ancora loro si permettono di fare qualche volta. Sciocche attività fatte in piena leggerezza, che tolgono forse alle giornate il loro carico di responsabilità. Lui accenna un sorriso, ascolta tutto quanto gli viene raccontato con una certa attenzione, almeno in apparenza, ma è come se avesse superato da tempo tutto questo, come se la sua dimensione attuale fosse ormai un’altra, ben lontana e differente da certe suggestioni. Franco gli chiede di sfuggita della sua salute, tanto per parlare, ma lui qualche volta sembra come evadere la domanda, e in altri casi si limita a rispondere soltanto a cenni, in modo estremamente vago, come non volesse addirittura dire niente di questo argomento, o quasi per sottolineare che non c'è proprio da dirne assolutamente niente. Quando Franco se ne va, lui lo saluta appena facendosi vedere un ultimo attimo sopra al suo terrazzino, quasi fosse quella proprio la volta finale, il suo congedo terminale da un percorso che oramai non lo interessa più.
Agli amici del bar Franco non sa neppure cosa riferire: alza le spalle, spiega che lui sta là, ma è come se non fosse più neppure la medesima persona. Forse ha ragione però, dice ancora: siamo destinati tutti a cambiare prima o dopo, non credo neanche ci sia un’altra soluzione. Probabilmente dobbiamo presto trasformare anche noi i nostri comportamenti e tutte le abitudini, questo è il punto. Gli altri lo ascoltano senza guardare neppure dalla sua parte, ed alzano le spalle, non sanno neppure loro cosa dire. E’ facile che in qualche modo lui coltivasse da sempre dentro di sé qualcosa di quel genere, fa uno dopo un po’; siamo noi che magari non ce ne siamo mai neppure accorti. Forse, fa un altro; però allora quello che accade a lui potrebbe succedere anche a noi nella medesima maniera. Può darsi, dice Franco, oppure lui era di un’altra pasta fin dall’inizio, chi lo sa.
Poi riprendono a giocare al biliardo e a fare le solite battute spiritose. Ci ha superato, indubbiamente, dice uno quasi tra i denti mentre prova un difficile rinquarto. A suo merito però dobbiamo dire che il cambiamento lui non l'ha subito, anzi, lo ha addirittura cavalcato, e peraltro senza alcun indugio. E poi anche noi non si può pretendere di restare sempre uguali, dobbiamo mettere nel conto che la realtà va usata e poi gettata via, come quasi tutto al giorno d’oggi. Quindi siamo noi i deboli, i nostalgici, i conservatori, dice Franco. Forse, dice un altro. D'accordo, dicono in due o tre alla fine del discorso: però terminiamo almeno questa partita; poi così tutti quanti insieme potremo finalmente voltare questa pagina.


Bruno Magnolfi

venerdì 16 ottobre 2015

Voglia di niente.

            

Camminano piano lungo la strada poco frequentata di quel quartiere. Dicono che prossimamente non ci saranno variazioni. Ridono, quando uno di loro riesce ad essere in qualche modo ironico, ma in fondo provano un senso leggero di amarezza, consapevoli dello stallo che si è creato. Poi si fermano, si guardano di sfuggita, accendono delle sigarette, scherzano, però intanto non sanno neppure di preciso verso dove dirigersi.
Uno cerca con calma di spiegare il proprio punto di vista su qualcosa, ma viene subito interrotto con qualche battuta, e lui così non riesce a tirare nemmeno le conclusioni che aveva nella mente, mentre il suo argomentare si spenge. Non importa, pensano tutti, siamo comunque d’accordo, non c’è neppure bisogno di dirselo.
Quando riprendono a camminare qualcuno ha già voglia di tornarsene indietro. Via, arriviamo fino alle panchine, dice lei. Così vanno avanti e si trascinano per qualche altra decina di metri, fino a sedersi. Sarebbe bello adesso parlare di qualcosa di importante, pensa qualcuno di loro. Ma a nessuno viene a mente un qualsiasi argomento che ne valga davvero la pena, perciò proseguono a dirsi le solite cose e nient’altro.
Lei tenta di avere uno spunto di entusiasmo: dice che ci sarebbe da andare al cinema, una delle sere a venire, ha letto qualcosa di una pellicola che merita. Tutti sono d'accordo, persino chi resta in silenzio, ed uno dice che se volessero potrebbero addirittura andarci in quello stesso pomeriggio. Non ci sono i soldi per tutti, questo è il punto, ma si rovesciano le tasche e tramite una rete di prestiti si raggiunge la cifra. C'è da prendere il tram, si fa presente, e così tutti si alzano, anche se un po’ svogliatamente, e si avviano a raggiungere la vicina fermata.
Uno però spiega che non ci sta, che se ne va a casa, non ha voglia di cinema, e aggiunge che ha comunque qualcos'altro da fare, senza spiegare che cosa. Altri due bofonchiano qualcosa di simile, e alla fine restano soltanto in tre a raggiungere la fermata del tram. Lei dice a questo punto che forse potrebbero persino rimandare, e anche gli altri in fondo sembrano d'accordo. Così si infilano in un baretto lì accanto, si prendono una birra per uno e si sistemano ad un tavolino.
Sono stanca, dice lei, non si combina mai niente, ci trasciniamo in giro senza avere ogni volta nemmeno un'idea nella testa. E’ vero dice un altro, ma non è colpa nostra se per noi non ci sono delle vere possibilità. Da domani comunque io provo a cambiare, fa il terzo: non ci vuole poi molto, basta volerlo. Continuano a bere e a starsene lì per una buona mezz'ora, infine quando escono, la sera si è già fatta avanti, e praticamente è quasi l'ora per darsi i saluti.
Non te la pigliare, dicono a lei gli altri due: cosa vuoi pretendere da questo buco di città dove ci ritroviamo; tutto scorre in mezzo ad una normalità sconcertante, anche soltanto per questo andarcene in giro come facciamo c’è di sicuro chi ha da ridire qualcosa. Non cambierà mai nulla, bisogna convincersi, tanto vale che almeno noi evitiamo di farci influenzare da questo andazzo. Poi restano tutti in silenzio, arrivano presto ad un angolo e senza aggiungere nulla si salutano con la testa bassa e senza grande enfasi.
Lei, rimasta da sola, preme il pulsante dell’ascensore del suo palazzo: sono soltanto tre piani di scale, pensa con calma; ma stasera non ho proprio voglia di farmeli a piedi.

Bruno Magnolfi 


lunedì 12 ottobre 2015

Lenta costruzione di uno come tutti.

            
            Anche in mezzo a tutti gli amici, proprio mentre loro si scambiano scherzi e battute come quasi sempre continuano a fare, lui non riesce mai ad argomentare qualcosa di personale che valga la pena di essere ascoltato, limitandosi perciò a seguire gli altri e tutt’al più ad annuire, magari prestando attenzione soltanto riguardo certi argomenti, e in ogni caso sempre senza alcuna insistenza. Qualsiasi cosa venga detta, gli viene naturale confrontarla immediatamente con la propria opinione, anche se poi, attorno a molti temi, gli vengono in testa mille altri dubbi, tanto da non riuscire neppure a capire se sia davvero d’accordo con ciò che si dice tra quei tavolini di quel locale dimesso, oppure no. Pur tentando ogni volta di conservare il massimo possibile di obiettività, facoltà che talvolta purtroppo gli sfugge, il suo parere finale in tutto questo, pur tenuto celato come solo a lui può riuscire, non risulta mai netto e ben definito neppure a se stesso.
            I ragazzi, quando stanno là dentro, in quella solita saletta del bar che frequentano quasi ogni giorno, riescono comunque a non essere mai apatici, anche se in testa non hanno generalmente molte idee. Lui spesso li osserva con insistenza quando parlano, quindi riflette, e qualche volta teme addirittura di essere preso per uno un po’ troppo triste, forse perché appare sempre distante dagli altri, come a rincorrere pensieri divergenti. Si sforza costantemente di essere diverso dall’idea che i suoi amici in certi casi si possono fare di lui, ma non gli risulta per niente una cosa facile.
Proprio per questo, durante un certo periodo, evita addirittura di farsi vedere là dentro. Resta a casa per diversi pomeriggi dopo la scuola, e cerca così di comprendere che cosa voglia davvero, anche se intanto studia qualcosa, si prepara per affrontare delle difficoltà di cui teme, pur non sapendo neppure lui cosa siano. Un paio dei ragazzi dopo due settimane va persino a trovarlo, e così lui li fa entrare per sistemarsi insieme a loro nella sua cameretta, a parlare senza troppo impegno e ad ascoltare un po' della sua musica, anche se  in aria c'è un vago imbarazzo, considerato che nessuno di loro riesce a dire davvero ciò che gli passa dentro la testa.
Ma lui di punto in bianco inizia a descrivere un sogno, e gli amici volentieri lo ascoltano. Mentre parla abbassa il volume della musica stereo, poi si alza in piedi, inizia a gesticolare leggermente anche se con lentezza, cercando come di descrivere in aria, con le mani e con le braccia, quelle stesse proprie parole che dice. Inventa, si lascia anche andare, gonfia le frasi, farnetica quasi, tanto che i ragazzi risultano addirittura impressionati dalle sue capacità fino ad allora ignorate, doti che forse neppure lui immaginava davvero di possedere.
Quando se ne vanno, d’improvviso a lui pare di essere pienamente soddisfatto di sé. Non sa di preciso neppure che cosa abbia detto, ma sa che lo ha fatto bene, che ha espresso qualcosa che teneva in serbo da tempo, e sa che probabilmente ha persino convinto i ragazzi di qualcosa che forse non saprebbe neppure descrivere. Il giorno seguente torna nel solito locale dove si vedono tutti, ed improvvisamente gli altri si fermano, gli lasciano spazio, attendono in silenzio, come ha già fatto, che tiri fuori ancora le sue cose da dire e da spiegare. Lui si siede, con calma, prendendo tempo. Poi dice sottovoce semplicemente che gli dispiace: che loro sono i suoi amici, è vero, quelli ai quali vuol bene. Ma non si devono attendere molto da lui: sono uno come tutti, spiega; nient’altro.


Bruno Magnolfi 

lunedì 28 settembre 2015

Così com'è.

            

Carlo, dice lei. E poi basta. Fuori scende la sera, sul largo viale di fronte le gomme delle auto continuano a rotolare sul fondo umido emettendo una specie di soffio o di respiro, anche se, chiudendo loro ermeticamente le vetrate dello spazioso appartamento, rinunciano subito a far giungere fin dentro qualsiasi rumore. Lei lo osserva ancora nell'attesa di un gesto oltre la lettura distratta del giornale. Carlo però ne avverte la presenza alle spalle, e proprio per questo finge assoluto interesse per l’articolo che si ritrova sotto gli occhi.
Dobbiamo parlare, fa lei. Lui volge per un attimo lo sguardo dalla sua parte, si sistema meglio gli occhiali sul naso e gira la pagina con accuratezza, per poi decidersi a chiedere: ma di che cosa? Non so, fa lei; non facciamo mai niente, stiamo qui oscillando perennemente da una poltrona all’altra senza mai concludere neanche di coltivare un interesse per qualcosa, o di mettere a punto una qualche decisione, occuparci di un tema, di un argomento, non saprei neppure dire quale.
Ma se dobbiamo addirittura sforzarci per trovare una passione a cui affezionarci, forse anche da condividere e magari fare nostra, proprio come vorresti tu; se non è qualcosa che ci nasce spontaneamente tra i nostri desideri, come può essere qualcosa da prendere poi seriamente? Forse hai ragione, dice lei, ma io mi sento annoiata, ecco l’ho detto, anche se non avrei voluto. Vorrei fare qualcosa, anzi, provare continuamente una spinta ad occuparmi di qualche argomento. In fondo bene o male tu hai il tuo lavoro, ma alla fine a me di una giornata intera spesse volte non rimane quasi niente.
Carlo si alza, va alla vetrata, osserva il flusso del traffico mentre scorre ordinatamente. Non si sente affatto toccato dal problema di sua moglie, però prova la necessità di darle una risposta, come sempre gli succede in casi di questo genere. Si volta, la guarda, all'improvviso gli appare soltanto come una grandissima scocciatrice, una che riesce semplicemente a sollevare dei piccoli e fastidiosi problemi pressoché insolubili. Però, forse proprio per questo, va verso di lei e l'abbraccia, come se quel gesto fosse capace da solo a distendere in un unico momento qualsiasi possibile tensione.
Conosco per vie traverse una grossa associazione di volontariato, le dice a voce bassa. Potresti impegnarti con loro, dare una mano: riunioni, incontri, decisioni da prendere, sentirti utile a qualcosa di sociale, insomma. Resta in aria una pausa silenziosa, in cui è facile immaginare le macchine lungo la strada mentre sembra continuino perennemente il loro carosello. Perché no, fa lei alla fine. Potrei sempre provare, e rendermi comunque conto di quanto tempo e di quante energie riuscirebbe ad assorbirmi un'attività di questo genere, prima ancora di decidere se vada davvero bene. Certo, fa Carlo, domani cercherò con qualche telefonata di metterti subito in contatto con qualcuno di loro, anche se naturalmente stasera non posso prometterti niente di preciso.
Va bene, fa lei, mi sento già meglio al solo pensare che posso finalmente rendermi utile per qualcuno, perché al contrario questo accorgermi che il tempo per me spesso trascorre in un modo così omogeneo e insignificante mi rende depressa, apatica, quasi sofferente. 
Carlo si protende per darle un piccolo bacio sulla fronte, mentre lei ispirata e sorridente subito va verso il tavolo da fumo, e si accende con soddisfazione una delle sue sottili sigarette. In fondo ci vuole poco, dice ironica, per farmi contenta. Poi va verso il finestrone e si ferma un attimo a fissare il traffico nevrotico che scorre proprio là sotto. Il mondo privo di passione non ha alcun senso, conclude. Tutti gli altri corrono verso qualcosa, sono spinti in avanti da desideri irrinunciabili; certe volte mi pare tutto così effimero, assurdo, addirittura privo di significato; ma poi mi convinco che hanno ragione a scorrere così l'uno a fianco all'altro, proprio come quelle macchine laggiù, pare anche a te Carlo? Lui si volta senza neppure averla ascoltata, però risponde subito: certo cara; è proprio così.


Bruno Magnolfi

martedì 22 settembre 2015

Caffè pagato.

            
            Lei non guarda mai nessuno negli occhi. Cammina, tira dritto, non si sofferma in nessun caso a guardare chi si trova di fronte. Forse la sua è soltanto timidezza, dice qualcuno che la conosce giusto di vista, proprio perché magari gli è capitato di vederla passare una volta o due lungo la strada che a lei piace percorrere per recarsi al lavoro. Lui invece dalla vetrina del suo piccolo bar, sempre deserto a quell’ora, la nota ogni giorno camminare di fretta lì davanti, attraversare velocemente sul marciapiede quel minuto spazio trasparente tra gli infissi del suo locale, e sparire oltre con rapidità, insieme al ticchettare inconfondibile delle sue scarpe coi tacchi. Potrebbe entrare, pensa lui, prendersi magari un caffè, dire di sé con indifferenza che oggi non è in ritardo come spesso le capita, e che stamani si sente tranquilla, che tutto è a posto, e non ci sono problemi particolari di cui occuparsi. Sarebbe bello, forse; non ci vorrebbe proprio alcuno sforzo.
Così lui oggi l'attende sul marciapiede, sulla porta del bar, le sorride e le dice buongiorno quando lei arriva, senza insistenza, anche se lei bofonchia solo qualcosa tra sé, e in un attimo ecco che lo ha già superato, senza concedergli alcuna possibilità. Lui però allora si gira, la guarda per un istante mentre si allontana, e quasi per orgoglio le dice: signorina; lei si volta, si sofferma, lui fa un passo verso di lei; le dice che vorrebbe offrirle un caffè, gli basta vederla entrare almeno una volta nel suo piccolo locale, conoscere meglio la sua voce, osservare le sue espressioni appena per un momento. Lei resta immobile, perplessa: grazie; ma non stamani, gli risponde; ho fretta, purtroppo; e riprende come faceva poco prima a camminare sopra ai suoi tacchi. Lui la lascia, ma comunque è già contento così, qualcosa sicuramente si è come delineato, e forse niente da ora in avanti sarà più come prima, le cose con molta evidenza cambieranno velocemente, e tutto si sistemerà, così forse ci saranno momenti più rilassati tra non molto, basta soltanto avere un po' di pazienza.
Lei, senza neanche dare un giudizio troppo pesante, pensa che ci sono in giro delle persone ben strane, e in un attimo archivia così la faccenda. Poi però mentre è lì nel suo ufficio a sbrigare le solite pratiche, ecco che ci ripensa: potrebbe esserci un errore di valutazione, riflette, qualcosa subentrato chissà come a complicare le cose. Al limite potrebbe essere partito proprio da lei l'elemento iniziale, ed è questa alla fine la riflessione più forte. Analizza meglio i suoi comportamenti, e ritiene, come d’altronde tutti coloro che la conoscono un minimo, di essere troppo chiusa con gli altri, di trovarsi carente di una componente fondamentale di socializzazione. Esce, durante la mattinata, torna indietro, lungo la via, fino a quel bar. Si ferma un po’ prima, osserva l’insegna, le vetrine, ciò che dalla strada si intravede di quel bancone e dei due o tre tavoli dentro al locale. Poi si fa coraggio e va a fermarsi proprio all’entrata. Lui la nota, ma sta servendo qualcuno. Non è questo il momento, riflette, non è in questo modo che doveva avvenire.
Così continua a scherzare con i clienti che si trova di fronte, lei aspetta, ma soltanto per un attimo; poi se ne va. E’ colpa mia riflette, mentre lentamente torna sui suoi passi; riesco sempre a sporcare qualsiasi cosa mi si presenti. Ma lui è già sulla porta del bar: signorina, le dice, e lei si volta, lo guarda; il suo caffè, dice lui, e le porge sul vassoio la tazzina.


Bruno Magnolfi 

venerdì 18 settembre 2015

Destinazione.

            

            Dai ragazzo - anche se in fondo non mi sembra molto giovane - gli fo dal finestrino aperto del mio macchinone, mentre lascio agevolmente salire le gomme di destra sopra al marciapiede. Quello si volta, mi guarda e resta immobile, come se non avesse neppure fatto caso alla mia ardita manovra di parcheggio. Così gli suono, giusto per sottolineatura, ma appena un accenno, proprio mentre mi fermo ad aspettarlo, ma quello nulla, sembra proprio non capisca che in fondo deve soltanto spostarsi. Mi sbraccio dal finestrino ed urlo ovviamente qualche mala parola mentre dietro di me si è già formata una fila di tre o quattro automobili in attesa che io completi le mie comodità. Ma alla fine lui sembra muoversi, ed appena un attimo prima che io apra lo sportello e lo affronti, ecco che si gira, fa giusto due o tre passi in avanti, e mentre finalmente riesco a posizionare la mia macchina in modo che gli altri possono transitare, e spegnendo conseguentemente il motore, quello torna leggermente indietro, e con tutta normalità si appoggia al mio faro, dandomi le spalle.
            Via, togliti di torno, gli dico senza enfasi mentre sono già coi piedi sopra al marciapiede, ma quello mi getta uno sguardo come se neppure mi vedesse, ed anzi, lo fa mentre si accende una sigaretta con tutta la calma di questo mondo. Ti conosco, fa lui senza più guardarmi; non esagerare con me perché so perfettamente come fregarti. Resto perplesso, questo non l’ho mai visto, penso, però potrebbe essere vero quello che dice, così mi avvicino e gli tocco una spalla come se lo avessi riconosciuto, dicendogli anche che se volesse prendersi un caffè con me nel bar di fronte, glielo potrei offrire molto volentieri. Lui però non dice niente, si limita a guardare altrove, poi sputa a terra e prende una boccata di fumo. Alla fine sottovoce spiega che dobbiamo andare via da lì, siamo sicuramente sott’occhio a qualcuno, non possiamo parlare con comodità.
            Rifletto al volo che questo mi ha scambiato per un chiunque che non sono io, così gli dico: tu vaneggi, adesso io mi prendo un bel caffè, con te o senza di te, e poi me ne vado per i fatti miei, è tutto chiaro? Ma il tizio si muove dal faro, apre lo sportello del passeggero momentaneamente rimasto senza sicura, e sale su, senza darmi altre spiegazioni. Torno al posto di guida giusto per chiarire le cose, ma la voglia del caffè mi è già passata, perciò rimetto in moto per automatismo, ed ingrano la marcia. Andiamo sui viali, fa lui; e tieniti sempre sulle corsie di sinistra, così nessuno ci nota. Vado avanti, attendo che questo tizio dica qualcosa che per me non abbia alcun senso, in modo da potergli spiegare che si è sbaggliato di persona, ma lui sta zitto, abbassa il finestrino e getta via la cicca. Si è piazzato sopra al naso un paio occhiali scuri, si guarda attorno, e non sembra neanche attendersi che io chieda qualcosa. Con il dito mi indica un paio di volte la direzione giusta, e mentre inizio ad essere un po' stufo di tutta questa storia, mi fa cenno di rallentare. Osserva qualcosa che non riesco neanche a comprendere, ma mi ritrovo perfino io a guardare nella sua stessa direzione, proprio perché mi aspetto da un momento all'altro che la spiegazione di tutto magari sia proprio lì, sotto ai miei occhi.
Andiamo ancora avanti, sto pensando di decidermi finalmente a smuovere le cose e dirgli che adesso proprio basta, c'è stato soltanto un malinteso, io ho altro da fare che stare in giro, e che con lui ho perso persino troppo tempo, quando il tizio mi fa segno di fermare. C'è il semaforo rosso, sembra accennarmi, cosi ci fermiamo tutti, una gran fila di macchine, ma lui senza guardarmi apre il suo sportello, sembra quasi con circospezione, devo dire, e poi subito scende, richiude, se ne va. Resto inebetito: forse è arrivato, penso.


Bruno Magnolfi

domenica 16 agosto 2015

Aria di cambiamento.

            
                   
Adesso lui è fuori, questo è certo. Alcuni dell'ambiente a cui è legato hanno cercato negli ultimi tempi di metterlo più volte sull'avviso, in fondo senza neppure usare troppi giri di parole, ma i loro accenni, pur chiari ed espliciti, non hanno prodotto alla fine alcun risultato positivo. In certi casi lui è parso addirittura sordo a certi argomenti, e spesso lo si è visto passeggiare con tranquillità per strada, muovendosi apparentemente quasi a caso, con un atteggiamento alla fine anche del tutto ordinario, nonostante qualcuno dei ragazzi incrociandolo avesse già da tempo cominciato praticamente ad ignorarlo. Ma lui forse adesso ha già qualcosa in mente, perché è proprio il tipo che non si dà facilmente per vinto, e certe volte lo si sente dire in giro che può sicuramente ancora farcela, anche se nessuno tra quei pochi che proseguono in qualche modo ad ascoltarlo prende in seria considerazione quelle sue parole. Forse non è neppure colpa sua la situazione che si è venuta a creare, però è evidente quanto lui non abbia saputo fin dall'inizio fronteggiare le cose come probabilmente sarebbe stato opportuno.
Poi, mentre sta da solo sul marciapiede fuori dal bar, gli si avvicina una ragazza che da qualche parte lui ha già visto, forse soltanto un paio di volte e sicuramente di sfuggita. Lei adesso lo saluta, si ferma, gli chiede una sigaretta sfoderando un gran sorriso, e poi dice subito che fa veramente caldo in questo periodo estivo, forse anche troppo per i suoi gusti. Per sottolineare le sue parole sbuffa leggermente, mentre attende che lui apra il pacchetto, forse anche per mostrare un suo vago disagio; ma lui invece annuisce divertito, e per gentilezza le dice che insieme potrebbero anche prendersi un caffè, sempre che le vada. Così entrano nel locale proprio accanto, si siedono ad un tavolo senza usare neppure troppe formalità, e mentre un paio di tizi in fondo a quell'ampio ambiente sembra proprio stiano giocando tranquillamente al biliardo, loro due si disinteressano di tutto. Il cameriere con serietà si muove da dietro al bancone e poi li serve, anche se percepisce qualcosa di insolito nell'aria, mentre i due tizi si scambiano un'occhiata esplicita e fanno partire quasi di nascosto una telefonata, proprio nello stesso momento in cui la ragazza ride di qualcosa che lui le sta spiegando, guardandola quasi con naturalezza in fondo agli occhi. Trascorrono così pochi minuti senza che accada altro, ma arriva subito dopo qualcuno dentro al bar, un uomo che lui conosce già da molto tempo, che si ferma, lo saluta con una smorfia ironica, ed appoggia una mano sul suo tavolo, come ad indicare che tutto il tempo a sua disposizione in quel locale è già finito, ed adesso deve proprio andarsene: non è gradito, sembra dirgli, o forse intende solo suggerirgli che ciò che aveva da fare là dentro in qualche modo è stato fatto.
Lui però guarda quell'uomo, assume un'espressione seria, sembra quasi voglia rispondere qualcosa, ma poi invece resta in silenzio. Si alza dalla sedia, con calma, ma lei pare trattenerlo lievemente per un braccio; l'uomo intanto scorre con calma fino al biliardo, e scambia qualche parola coi due tizi, che mostrando una forzata naturalezza hanno ricominciato a fare qualche tiro sopra al panno verde. Lui è rimasto in piedi, lei lo guarda, sembra volergli infondere il coraggio che forse potrebbe anche mancargli, ma infine si alza anche lei, e insieme, dopo aver lasciato qualche soldo sopra al tavolo, raggiungono l'uscita. Qui si fermano, lei torna a guardarlo, lui la bacia sulle labbra con trasporto, poi le fa cenno di aspettarlo sulla strada, e infine torna dentro a quel locale, completamente solo. Va incontro agli uomini che attorno al biliardo adesso si irrigidiscono, e sembrano proprio attendere la sua prima mossa, ma invece lui si ferma, li guarda, dice che per loro le cose si stanno mettendo molto male, anche se quelli la prendono quasi a ridere. Adesso ho da fare, dice; in ogni caso il vostro comportamento è proprio ridicolo, e non ci sarà probabilmente alcuna salvezza per voi, se neppure riuscirete a comprendere che ciò che sta cambiando sarà anche per il vostro bene.


Bruno Magnolfi

lunedì 27 luglio 2015

Silenzio.

            

            Lei cerca qualcosa nella zona buia del palco. Lui, al contrario, apprezza la luce calda di un faretto che gli accarezza leggermente l’espressione. Sono stanca dei nostri continui contrasti, dice lei ad alta voce, come cercando il consenso plateale del pubblico silenzioso presente. Ormai il nostro sembra un perenne disaccordo, qualsiasi sciocchezza è buona per tirare fuori opinioni differenti e contrastanti. Facciamo regolarmente una medesima e monotona figura meschina davanti a tutti loro, proprio come se fossimo due persone che non riescono neppure ad essere una coppia. Silenzio. Ma noi non siamo una coppia, dice lui, modulando un’espressione quasi seria e preoccupata sul proprio viso. Silenzio. Lo so, replica lei, ma non c’è affatto bisogno di far sapere a tutti della nostra distanza. Loro pensano di noi qualcosa che è forse superiore alle loro stesse normali esistenze, si commuovono persino quando noi ci avviciniamo, quando lasciamo vedere che c’è ancora del sentimento che ci tiene uniti.
            Ma è falso, fa lui, è soltanto un artificio del copione, lo sanno benissimo in platea. Non è vero, ribatte lei: loro si immedesimano nelle nostre parti, e come succede a tutti quanti quando sono nelle loro comode case, sperano sempre che qualcosa prima o dopo si appiani, insomma che alla fine di ogni tempesta sia finalmente il sereno a prevalere. Silenzio. Lui continua lentamente a muoversi nel cerchio di luce, lei si limita ad osservarlo, dalla penombra. E poi il nostro passato ha un senso, dice; qualcosa che ci ha pur tenuto uniti per tutto questo tempo. Forse è soltanto l’egoismo di ognuno di noi che adesso ci trascina su altre strade. Certo, una volta c’erano degli ottimi motivi per starcene vicini, per dimostrarci quasi continuamente il nostro affetto…
            Ecco, senti, qualcuno applaude piano in fondo alla platea alla parola affetto; sono forse quelli che hanno seguito la nostra storia fin dall’inizio, che ci hanno sostenuto, che in qualche modo stanno ancora dalla nostra parte, e non desiderano certo vedere adesso il nostro sangue, ci vogliono bene, insomma. Silenzio. Va bene, dice lui quasi con stizza, però possiamo pur continuare ad avere delle opinioni personali, mi pare, anche se queste paiono proprio non assomigliarsi per niente. Certo, fa lei, è naturale; basta però non usarle tra di noi come delle armi, o aggrapparci a queste per mostrare tutta la nostra distanza. Va ancora bene così, lo accetto, fa lui, anche se una maggiore naturalezza mi pareva non guastasse...
Qualcuno d’improvviso, tra le poltroncine del pubblico, inizia a parlare a voce sufficientemente alta da interrompere quasi il dialogo che si sta svolgendo. Dice che è il risultato quello che alla fine conta per davvero, non tutti questi artifici. Poi si fa silenzio. Non è affatto così, rispondono invece quasi contemporaneamente loro due. Anzi, dice lei, noi non potremo mai essere diversi da come siamo ora, e ciò che si vede è soltanto la dimostrazione e il risultato di quanto profondo sia il nostro vero sentire, non un colpo di mestiere. Poi cala di nuovo il silenzio. Forse è solo l’orgoglio a far parlare loro due in questo modo; forse dovrebbero essere più realisti ed affrontare con maggiore slancio l'evidenza delle cose.
Qualsiasi parte ci troveremo mai a rappresentare sopra queste assi, dice lui uscendo leggermente dalla luce, non riusciremo certo a rifarci una verginità: siamo destinati a stare insieme, questo è certo, e a mostrare così poco per volta il nostro lento sacrificarci, questa perenne debolezza umana di non riuscire mai a stare per troppo tempo dalla stessa parte. Silenzio. Sono d'accordo, fa subito lei, anche se la mia adesso appare soltanto come una contraddizione.


Bruno Magnolfi

mercoledì 15 luglio 2015

Segni divini.



Tutto è iniziato un po' di tempo addietro, senza che lei assolutamente fosse stata capace di spiegarsi il motivo di quelle perdite di sangue intorno alle unghie delle mani, riuscendo comunque con alcune paia di guanti speciali, e naturalmente con la scusa di avere acquisito una tremenda allergia da contatto, a tenere nascosta a tutti la verità su quanto forse le stava realmente accadendo. Quasi ogni giorno sentiva scendere poco per volta nelle sue dita una forza che sostanzialmente non le era propria, un calore ed un'energia praticamente sconosciute, e lei, spontaneamente, nonostante si fosse da sempre reputata quasi atea, volle interpretare fin da subito quanto le stava accadendo come un vero e proprio segno divino, anche se evidentemente pressoché incomprensibile. Il sangue attorno alle unghie era soltanto nell'ordine di qualche goccia che si formava lentamente intorno ai polpastrelli, ma il formicolio che le prendeva ai polsi ed alle mani era forte, anche se tutto si svolgeva senza che in fondo lei avvertisse sul corpo alcun dolore e avesse nessun altro disturbo.
Si confidò con un’amica, dopo qualche tempo, sentendosi subito meglio per essersi almeno finalmente liberata di un segreto che aveva fino a quel momento tenuto celato a tutti, anche se l'altra si fece subito prendere dai brividi, sostenendo immediatamente che quello appariva semplicemente come un vero e proprio segno soprannaturale, e di un tipo sicuramente formidabile. Arrivò a dirle addirittura che pur essendo assolutamente una cosa certa ed incontrovertibile, secondo lei avrebbe dovuto comunque sincerarsene recandosi il prima possibile da qualcuno che si intendeva di eventi divini e di cose di quel genere. Laura, le spiegò, tu sei la prescelta per un messaggio che adesso noi non riusciamo in nessun modo a comprendere, ma che sicuramente scavalca le nostre vite per intensità e per importanza. Lei ebbe paura di quelle parole, così le fece giurare e spergiurare che non avrebbe mai rivelato a nessuno il suo segreto, e naturalmente non disse niente ad altra anima viva, risolvendosi a non frequentare più neanche quella sua amica.
Le cose dopo allora difatto sono andate avanti in questo modo per diverso tempo: lei ha proseguito a fingersi affetta da quella specie di malattia, ed a professare agli altri, certe volte persino a se stessa in una sorta di propria sincera intimità, un'insidia virale che tutti, parenti e amici, hanno sempre riconosciuto come una iattura, la solita sfortuna che a volte la natura lascia cadere su qualcuno scelto a caso. Ad oggi comunque gli episodi si sono fatti molto più radi, anche se non sono mai cessati, e Laura, pur non avendo mai iniziato a professare alcuna religione, forse proprio nella paura di essere scoperta, di fatto svolge una vita piuttosto riservata, ed ogni sera pare rivolgersi al soprannaturale, parlando da sola a voce alta delle sue angustie, ed enumerando quasi sempre ogni sua preoccupazione. Stasera però, su di una semplice rivista illustrata, ha letto casualmente che esiste un’infiammazione quasi con le medesime caratteristiche presenti sopra le sue mani, e che scompare in poco tempo curandosi con una semplice pomata che abbia degli opportuni componenti.
            E’ rimasta perplessa, ha riletto di nuovo tutto l’articolo, poi ha chiuso il giornale: una sciocchezza, niente più di una cosa senza importanza, che può prendere chiunque, senza alcun problema: questo il senso delle cose scritte là sopra. Allora è andata in bagno, si è tolta i guanti, ha osservato le sue mani così bianche e smunte per non averle mai adoperate per tutto quel tempo, e le è venuta forse voglia di piangere, anche se si è trattenuta. Poi è uscita da casa, sempre senza guanti, e le sue mani poco dopo hanno preso a sgocciolare sangue dalle dita, anche se Laura non se ne è affatto preoccupata, neppure quando qualcuno tra i passanti le ha chiesto allarmato che cosa le stesse succedendo. E’ un segno, ha risposto lei, niente di speciale.


            Bruno Magnolfi 

martedì 30 giugno 2015

Senza memoria.



C'è come una presenza inspiegabile nel vecchio magazzino degli attrezzi in fondo al giardino di casa sua. A lui piace andare là in questa stagione, quando nel primo pomeriggio oltre la recinzione non si vede proprio nessuno in giro, ed il sole batte forte sopra al tetto di lamiera, tanto che dentro nel gran caldo si sente soltanto l’aria asciutta e immobile, ed una mosca o due che ronzano nell'aria, e poi più niente. Sta lì fermo per un po', come in attesa, nel silenzio, si guarda attorno lentamente per abituare gli occhi alla penombra, e poi, dopo lunghi minuti, finalmente eccolo, il primo piccolo rumore provenire da un angolo zeppo di roba e cianfrusaglie. E’ uno scricchiolio, un movimento di carte e piccoli oggetti, ed arriva sempre insieme come ad un frusciare di stoffa, forse di vestiti.
Potrebbe essere un topo, pensa, o un grosso insetto, ma a lui piace immaginare qualcosa di diverso, anche perché quei rumori dopo un po’ si fanno radi e insoliti, quasi il blando eco di minuti e ordinari movimenti come di una persona probabilmente abitudinaria. O almeno lui qualche volta crede questo, comunque sia, senza neppure cercare di smontare troppo questi suoi pensieri. Ascolta, ed è come vedesse davanti a sé la sagoma di qualcuno che sta lì, nella penombra, in piedi, e forse muove lentamente una gamba, poi appoggia sull'arto tutto il peso del suo corpo, infine tocca qualcosa con la mano, mentre lascia l’altra infilata in una tasca.
Passa un amico da casa, per combinazione, e lui lo porta con sé nel suo capanno, rispondendo probabilmente ad una forte voglia di spiegare, o forse di confidarsi con qualcuno. Stanno immobili, ambedue, ed i rumori non si fanno neppure troppo attendere, dopo che le prime gocce di sudore imperlano le loro fronti. L'amico dice che secondo lui dovrebbe mettere una trappola, c'è sicuramente un piccolo animale da qualche parte, ma lui sorride, nervoso, dice che no, non è così, anche se l'altro insiste. Ascolta, ascolta bene, fa ancora lui. Un fantasma abita qui dentro.
L'amico ride, e lui si arrabbia; porgi le orecchie attente, dice ancora, e intanto gli abbassa la testa mettendogli una mano sopra al collo. L'altro si china, ma è infastidito, vorrebbe quasi andarsene, poi cerca di scansare quella mano con una mossa svelta, poco arguta, ma lui comprende il tentativo e lo pigia ancora di più, a mostrargli netta la propria volontà e ciò in cui crede. L'amico a quel punto scivola, o forse perde l'equilibrio, allunga una mano svelto, ma non ce la fa a riprendersi, e allora sbatte su un attrezzo, e alla fine cade lungo disteso con un grosso taglio nella testa. Sangue, lui non riesce a sopportare quello che all’improvviso sta proprio capitando, quella situazione così inattesa, ed i rumori che adesso sono anche maggiormente intensi di qualsiasi altra volta, mentre tutto trema e sta come sfuggendo a qualsiasi comprensione, così come il suo amico che sembra assurdo mentre si lamenta e contemporaneamente impreca contro di lui, contro quelle sue stupide manie.
Lo colpisce duro con la prima cosa che si ritrova tra le mani: come si fa a non capire tutto questo, dice forte, come si può essere cosi miopi. L'amico giace a terra, tramortito, i rumori intorno sono fortissimi, a lui pare quasi sia già scesa la sera, sia già buio fuori da quel suo magazzino abbandonato, ma si riprende, si guarda attorno, non ha paura, allunga il braccio, aiuta il suo amico a rialzarsi, a rimettersi in piedi: via, gli dice, usciamo subito da qui; va tutto bene, andiamo in casa a medicarci, tutto è già finito, tra poco non ci ricorderemo neanche più di questi fatti, domani forse sarà un giorno qualsiasi, non avremo neppure un debole ricordo di tutto questo, niente, assolutamente, perché domani tutto probabilmente sarà già stato cancellato dalla nostra mente.


Bruno Magnolfi

lunedì 22 giugno 2015

Senso di colpa.

           
            Perché mai devo stare chiuso qua dentro, rimanere dietro ai vetri di questa finestra ed accontentarmi solamente di osservare una realtà in fondo piccola, quasi insignificante? Sono già diversi giorni che lui si pone questa domanda, ed anche se si sente ancora debole per via della convalescenza a seguito di una lunga malattia, e nonostante il medico gli abbia prescritto di non uscire da casa e di non fare alcuno sforzo, guarda l’aria aperta lungo la strada di fronte al suo appartamento provando la sensazione di essere come dentro una gabbia. Si muove sulla sua sedia, a volte legge qualche pagina di uno dei suoi libri, ma poi torna lì, a quella finestra, ad osservare semplicemente la gente che passa, il transito ordinario di uomini e donne lungo la via.
            Suona il telefono, e qualcuno timidamente, presentandosi solamente con il nome di battesimo, dice che lo conosce già da un po’ di tempo, che lo vede praticamente ogni giorno dietro a quei vetri, e che prova quasi pena per lui, costretto come si trova in quella situazione. Lui si scuote, dice che quelle parole sono quasi offensive: che è stato gravemente ammalato, e che per questo e nient’altro si trova in quella situazione che normalmente non avrebbe mai accettato; ma l’altro conserva un tono di appiccicosa comprensione, come se gli argomenti con cui sta replicando non avessero quasi importanza.
Lui si innervosisce, alza leggermente la voce, chiede sgarbatamente che cosa desideri dimostrare con quei discorsi senza alcun significato, e quale sia il motivo finale di una telefonata del genere; ma l’altro dice soltanto che è un senso di solidarietà ad averlo spinto fino a quel gesto, e che se è d’accordo potrebbe addirittura passare a fargli una visita, magari perfino quel medesimo pomeriggio. Lui resta perplesso, non si aspettava di certo una cosa del genere, anzi, gli torna proprio strano che possano esserci delle persone preoccupate in questo modo degli altri, ma dice subito, pur ringraziandolo, che non ne sente affatto la necessità, e che in fondo a lui non serve niente. L’altro non si scoraggia, dice che in ogni caso passerà più tardi, giusto per assicurarsi di persona che le cose stiano effettivamente in quella maniera, e lui non riesce ad opporre alcuna resistenza, anche se forse vorrebbe togliersi volentieri dai piedi quello strano scocciatore.
            Riagganciano insieme, e lui prova il moto immediato di uscire da casa, di non farsi trovare, a dimostrazione di come stia già più che bene, e che non ha affatto bisogno di niente e di nessuno. Ma poi, soprappensiero, torna ad avvicinarsi alla sua finestra, anche se adesso prova come una specie di ostilità per i vetri, come se da quella trasparenza giungesse a lui soltanto la curiosità malata e forse tossica della gente che continua a transitare da quelle parti.
            Si siede, spossato, attende, infine qualcuno suona effettivamente il campanello di casa. Gli tremano le mani mentre apre la porta, ma un uomo all’incirca della sua stessa età, che lui non conosce, gli dice gentilmente: buongiorno, eccomi qua. Così lo fa accomodare, si siedono, e restano in silenzio per qualche minuto. Infine quell’uomo dice che adesso deve proprio andarsene, e all’improvviso lui resta solo, di nuovo, accanto a quella finestra. Avrebbe potuto dire chissà quante cose, pensa, intavolare innumerevoli scambi di idee e parlare di mille e più argomenti; ma non l’ha fatto. Forse, riflette, in un caso del genere è giusto provare almeno un piccolo senso di colpa. 

            Bruno Magnolfi