martedì 28 ottobre 2014

Lungo il sentiero degli altri.

            

Certe volte il ragazzo avvistando qualcuno che conosce mentre cammina per strada, d'istinto cambia marciapiede, ma soltanto per evitare che quello lo saluti in maniera troppo esuberante, o che addirittura gli chieda qualcosa, magari del suo andamento scolastico, o dei suoi amici, o anche di altre cose del genere. La sua non è vera asocialità, soltanto non gli va di affrontare con estranei argomenti che profondamente sente soltanto suoi. Quando infine va al solito ritrovo dopo la scuola e incontra Nadia insieme agli altri, spesso finge per scherzo di non accorgersi neppure di lei fino quasi all'ultimo, quando ormai è lì, accanto a sé. Come va, le chiede in maniera un po’ impersonale, ma con modi seri, anche se poi le sorride mostrando tutta la complicità che avverte solamente con lei, e di cui lei ha sicuramente coscienza.
Qualcuno ha riferito a sua madre che lui è un tipo strano, ma al ragazzo non importa minimamente del giudizio degli altri. Tira diritto, sa che la sua vita sarà difficile con il suo carattere, per questo quando incontra Nadia cerca di tirare fuori la sua personalità più estroversa. Lui osserva molto tutte le cose che gli scivolano accanto, ma lei gli dice spesso che al contrario pare sempre indifferente a tutto quanto intorno a sé. Non ha alcuna importanza, spiega il ragazzo: le cose bisogna sentirle dentro, dobbiamo essere onesti con le nostre sensazioni, il resto poi va da solo.
Un pomeriggio si allontanano insieme dal solito ritrovo. Nadia racconta di sé, delle sue convinzioni: il ragazzo l’ascolta. Possiamo metterci assieme, le dice dopo un po’, anche se in fondo non sarà questa la cosa essenziale. Lei non comprende, si chiede cosa ci sia dietro a dei discorsi del genere, ma lui le dice che è soltanto questione di mezzi, loro due, l’uno per l’altra, dove in fondo lo scopo vero è semplicemente il futuro che avranno. A lei sembra bastare per il momento, sa che lui forse è il più sincero di tutti dicendo così, anche se vorrebbe sentirsi dire altre cose, forse più usuali, forse però anche meno vere.
Al ritrovo insieme agli amici nessuno ormai fa più caso a Nadia ed al suo ragazzo: i rapporti si sono modificati, ognuno avverte delle importanti variazioni, anche se finge indifferenza: tutti adesso è come se fossero diventati, nel loro teatro del pomeriggio, delle semplici comparse di una scena dove lui e Nadia sono praticamente attori e comprimari. Loro due di fatto quasi non vedono più nient’altro: parlano, si spiegano, hanno la profonda e continua necessità di scambiare tra loro anche i pensieri più inconfessabili. Intorno è proprio come se non ci fosse più niente e nessuno.
Infine qualcosa si rompe, è inevitabile. Nadia si dispera, forse anche lui, anche se non sembra affatto. Non ci sono spiegazioni, si è interrotto un meccanismo fragile, retto solamente su poche cose. Il ragazzo pensa che non poteva essere altrimenti, e prosegue ad attraversare la strada quando avvista qualcuno con cui non vuole parlare. Poi riflette che il suo è forse un atteggiamento troppo omogeneo, quasi integrale nella sua mancanza di elasticità, così ormai privo di qualsiasi modifica. Allora cerca Nadia per riferirle almeno quanto è riuscito a riflettere, ma lei è già volata: i suoi pensieri di fatto sono già dietro un altrove che a lui probabilmente ora sfugge, lungo un sentiero che comunque non è più il suo, e lungo il quale, se anche volesse avviarsi, si sentirebbe soltanto un estraneo. Per questo lascia perdere, anche se sa che la sua è una vera sconfitta.


Bruno Magnolfi

mercoledì 22 ottobre 2014

Esperienze ordinarie.

            
            Entro nel piccolo ufficio, dopo aver atteso quasi un'ora con il foglietto numerato, mi siedo su una delle due seggiole, e con disinvoltura accavallo le gambe mentre mi assicuro, quasi per abitudine, che la mia gonna non mostri troppo. L’impiegato di fronte neppure mi guarda, prosegue a scartabellare qualcosa, anche se dopo un attimo dice buongiorno, saluto al quale naturalmente contraccambio subito risposta. Attendo. Che deve fare, mi fa, dopo un’altra porzione di tempo e ancora senza guardarmi. Protocollare, gli dico posando sopra la scrivania i miei due o tre fogli spillati. Non è questo l’ufficio giusto, mi fa. Poi alza il telefono, parla con il portiere, dice qualcosa nervosamente. Quando abbassa chiedo con gentilezza allarmata maggiori informazioni.
            Dice l’impiegato che, certo, per il mio caso lui può fare eccezione, quasi poi fosse un grande favore, quindi allunga una mano e prende i miei fogli. Senza neppure guardarli ci ripensa e subito si alza; dice: scusi un momento, quindi nervosamente esce con rapidità dalla stanza. Da sola, avrei quasi voglia di mettere all’aria e confondere tutti i suoi fogli ammucchiati sul piano del tavolo, però  mi controllo. Attendo. Quando l’impiegato rientra mi alzo a mia volta, quasi per fargli vedere che in fondo posso fare anche a meno di lui e delle sue sgarbate maniere. Lui invece si siede quasi senza fare caso a tutto il resto, ed inizia col dire che è un tipo preciso, che non gli piacciono le cose fatte in maniera approssimativa, e altre frasi del genere. Dico che ha ragione cercando velatamente di dare una veste ironica a quanto a me sta avvenendo, ma lui tira diritto con convinzione e riprende in mano i miei fogli.
Mi chiede, senza muovere gli occhi da sopra lo schermo che in parte gli copre la faccia, se sia proprio io la persona che sottoscrive quei documenti. Rispondo di si senza aggiungere altro, e forse vorrei mettermi a sbuffare, tanto mi sta pesando la situazione. L’impiegato scrive qualcosa ticchettando sulla tastiera, infine una stampante alle sue spalle si mette in funzione per sfornare un semplice foglio. Lo prende, lo guarda, lo timbra, avvalora la carta con un umile frego.
Ci vuole la marca, mi fa. Non ce l'ho, dico io. Poteva dirlo subito, che lo voleva su carta semplice, dice lui. Mi si arrossano le guance, lui strappa il primo foglio e scrive qualcos'altro con la sua tastiera. Dalla stampante ne viene fuori una carta identica alla prima, e anche questa lui la timbra e ci fa sopra un semplice rigo con la sua penna. Devo pagare? gli dico conservando buone maniere. Certo, fa lui, e mi dice subito quanto. Lascio una pausa. Non ho i soldi, gli dico. L’impiegato adesso mi guarda allibito: sono soltanto pochi spiccioli, sta sicuramente pensando; com’è possibile andare per uffici senza nemmeno lo stretto necessario?
Aspetto accada qualcosa, lui si alza, esce dall’ufficio; poco dopo rientra: prenda questo foglio, mi dice; arrivederci. Intanto ho trovato nella mia borsetta i soldi che mi aveva chiesto, gli dico con noncuranza, e con un semplice gesto faccio tintinnare delle monete sopra al piano del tavolo, mentre raccolgo con calma tutti i miei fogli. Attendo. Lui forse con gli occhi vorrebbe incenerirmi, io mi alzo, dico arrivederci, sistemo la gonna prima di uscire proprio come se stessi abbandonando una toilette pubblica. Infine guadagno il corridoio, ma subito torno indietro e mi riaffaccio un momento alla stanza: grazie, dico; è stato molto gentile.


Bruno Magnolfi

lunedì 13 ottobre 2014

Prospettiva personale.

            
                      
            Se devo essere obiettivo, trovo che non sia neppure troppo comoda questa poltroncina che mi sono scelto. Però è senz’altro la mia sedia, e indubbiamente ci passo sopra seduto parecchio tempo, soprattutto perché credo che in questo mio angolo di stanza sia racchiuso molto, se non tutto, del mondo che desidero. I miei familiari fanno ogni sforzo per scuotermi e per indurmi ad abbandonare questa postazione privilegiata, ma io tengo duro, e resto qua disinteressato verso qualsiasi cosa dicono.
            Non si può neppure guardare uno che si impigrisce così, e lascia che il tempo gli scorra accanto restando indifferente quasi a tutto, mi fanno con voce grave. Lascio correre: fuori, di fronte ai vetri di questa finestra, c’è un condominio di terrazze e tante altre finestre, con gente che stende i panni ad asciugare, fuma qualche sigaretta, prende aria, oppure telefona, smanettando come fosse sopra al palcoscenico. Mi basta questo. Dalla mia sedia riesco ad osservare tutto quanto, e con una matita disegno ciò che vedo, almeno quando non sono impegnato a pensare qualcosa, oppure a rileggere uno dei miei libri preferiti.
Non farai mai niente di buono, mi dicono. Eppure cerco di non dare fastidio a nessuno restando seduto in silenzio. Certe volte mi alzo, nelle giornate afose, ed apro la finestra. I miei parenti non vogliono, hanno sempre paura che getti qualcosa di sotto, che provochi dei danni a qualcuno che passa lungo il marciapiede. La richiudono in fretta, appena se ne accorgono, ed io lascio perdere quelle loro fisime, facciano pure quello che credono, penso, io non mi scompongo. Cerca almeno di evitare guai, mi ribadiscono; tutto questo solo perché una volta tirai un libro dietro ad un ragazzo che sopra al terrazzo faceva dei versi proprio contro di me.
Devi cercare di essere utile a qualcosa, mi spiegano certe volte mentre mangiamo tutti assieme. Annuisco, hanno ragione. Però se non ci fossi io ad osservare le piccole cose che avvengono nel condominio di fronte, nessuno ci farebbe caso. Non posso neppure dirlo, perché risponderebbero in coro che le mie sono solo delle scempiaggini, eppure io penso spesso che nelle piccole cose che ci circondano si annidi molto della verità.
Torno al mio punto di osservazione, sopra della carta semplice tratteggio i miei vicini di casa, le loro fogge, le espressioni che assumono. Ne ho uno sportello pieno di questi miei disegni, attendo soltanto che nasca qualche controversia per mostrare tutto ciò che ho visto da questa sedia, sbirciando fuori da una semplice finestra. Forse davvero non sarà importante tutto questo, però a me sembra a volte di veder perfino scorrere l’esistenza di tutti davanti a me. Non è fondamentale, certo, ma a volte penso che sia proprio la vita ad essere così.

Bruno Magnolfi


            


            

mercoledì 8 ottobre 2014

Definizioni potenzialmente incerte.



Per esempio, non saprei dire cosa sia meglio fare in una giornata come quella di oggi, pensa Leo. Anche se non mi reputo il solito tizio pieno di incertezze e privo di punti di riferimento, so perfettamente però che il mio tempo, se non fosse scandito dagli orari classici del lavoro, del sonno, dei pasti, dei notiziari giornalistici della radio e della televisione, si mostrerebbe per me estremamente più complesso e indefinito. Certe volte mi trovo a parlare con qualcuno che mi svela la sua opinione su una cosa o sull'altra, ed io lo ascolto, qualche volta annuisco anche con una certa convinzione, ma spesso è come se mi trovassi costretto a pensare ad altre cose, pur continuando ad osservare attentamente chi ho davanti, tanto da restare alla fine sempre indeciso se confidare a quello anche il mio parere, oppure tenermelo soltanto per me, sempre che ne abbia davvero uno. Resto con il dubbio, riflette ancora Leo; come se in fondo niente di definito si profilasse davanti ai miei occhi. Potrei forse dire una cosa e sostenerla a spada tratta, penso; oppure spifferare con apparente sicurezza anche il suo opposto, e mostrarmene assolutamente convinto, anche se in genere lascio perdere tutto perché non trovo neppure grandi differenze tra quel certo parere, oppure quell’altro.
Leo, sento chiamare ad un tratto dietro di me, sempre nell'esempio; mi volto, e c'è una persona che forse mi conosce, anche se soltanto in maniera direi superficiale; eppure il tizio finge di avere addirittura qualcosa da spartire con la mia persona. Per educazione ricambio il saluto, pensa ancora Leo, proprio mentre mi siedo insieme allo sconosciuto sopra al sedile di questa corriera che mi riporta a casa. Non gli sorrido, neppure lo guardo, eppure so per certo che lui tra un attimo inizierà a dirmi tutte le sue cose e le sue opinioni nell’arco di questo pur breve viaggio. Rifletto, dice Leo; non posso fare altro, penso. Invece mi alzo, subito dopo, proprio mentre la vettura è gia in movimento, spiega in seguito Leo all'avvocato d'ufficio; e nello stesso tempo mi metto ad urlare, ma non perché sono convinto in qualche modo di ciò che sto facendo, quanto perché sento improvvisamente il bisogno di rompere questa normalità che mi attanaglia, che mi toglie quasi del tutto anche il respiro. Non so dove trovo la forza, dice Leo quasi con convinzione, però prendo questo tizio per la gola, e non per fargli veramente del male, quanto per essere sicuro che lui taccia, che la smetta una buona volta di dire tutte le sue stupide cose.
Ecco, sostiene Leo con un tono più pacato, non so neppure spiegare perché tutto quanto debba accadere veramente in questo modo, così come non so comprendere quelle persone che subito dopo mi hanno poi bloccato le braccia, e quelle parole assurde che tutti hanno immediatamente gridato contro di me; e poi quella denuncia, e le forze dell'ordine che mi hanno sequestrato e sbattuto qua dentro in malo modo. Non lo so, dice Leo. Forse non avevo tutto il diritto di difendermi, di porre una barriera, di mostrarmi incerto, senza un’opinione vera, come se all’interno di una realtà così piena di convinzioni, io non potessi mostrare finalmente di non averne alcuna, e soprattutto di non volerne avere?  Assurdo, dice Leo, adesso con voce estremamente chiara; anche se subito dopo sostiene di non saper decidere se sia questa oppure no la parola più definitiva su tutta quanta la faccenda.


Bruno Magnolfi